La profonda conoscenza dell'arte, oltre i confini dei linguaggi ordinari

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"Ritengo che l'unica forma di bellezza sia quella di cui ha parlato un grande filosofo come Adorno, il quale parlava della bellezza come un parallelogramma di forze". Incontro con lo storico dell'arte Vincenzo Trione.

 By Camilla Delpero

 

L’Italia e l’arte sono sempre state unite e connesse, basti ricordare tutti i movimenti e gli artisti eccellenti dal rinascimento fino ad arrivare alle avanguardie più recenti. Lei pensa che l’Italia sia ancora una fucina di talenti oppure il ‘’mercato internazionale’’ che mette sulla piazza molti artisti stranieri (e pochi italiani) in aste, fiere ecc., abbia tolto al nostro paese qualche primato?

Io credo che la riflessione debba essere sviluppata su due diversi fronti: da un lato, quello del mercato, generalmente dominato dalla logica dell’investimento immediato, non necessariamente orientata alla promozione di ricerche informate da valori duraturi, dall’altro, quello dell’arte,  i cui veri valori, al contrario, ambiscono alla permanenza. Il mercato in questo momento non premia in modo rilevante tante presenze significative del panorama italiano, tuttavia, sono convinto che il nostro paese – caratterizzato da una grandissima specificità linguistica che accomuna gli artisti delle avanguardie novecentesche, da De Chirico a Kounellis fino a Vanessa Beecroft  –  sia ancora una fucina di talenti, anche giovani di grande interesse. Quando ho curato il Padiglione Italia alla Biennale ho provato a mettere in rilievo questa partita doppia giocata dal legame con la sperimentazione novecentesca e l’arte di ricerca da un lato, e, dall’altro, con i continui attraversamenti inquieti dei territori della memoria della storia dell’arte. 

Le gallerie decretano il ‘’valore’’ di un artista e sono fondamentali per il successo e la diffusione dell’operato degli stessi. Secondo lei chi non fa parte del “gioco” può avere credito nel sistema ufficiale? 

Si, certamente tutto quello che si muove fuori dal sistema delle gallerie incontra molte più difficoltà nel trovare spazio e nell’acquisire rilevanza. Rispetto a qualche anno fa è emersa una differenza sostanziale: gli artisti più giovani lavorano per le gallerie non al fine di rimanervi al loro interno, ma per imporsi nel sistema museale. Sono convinto che esista una fitta rete di ricerche interessanti esterna ed estranea ai giochi delle gallerie, delle fiere, del mercato in senso stretto, un gruppo che si muove nell’underground, al quale dovrebbe essere rivolto uno sguardo critico molto più attento e offerto maggiore sostegno. I musei, anche per ragioni economico-finanziarie non godono di un’assoluta autonomia, ma devono rivolgersi alle gallerie per sostenere la realizzazione di opere o di interi progetti espositivi e, queste, pertanto, finiscono per esercitare forme più o meno rilevanti di influenza o ingerenza sugli stessi programmi delle istituzioni. Al contrario, io ritengo che, come accade in Inghilterra o in Germania, i musei debbano essere liberi di operare le proprie scelte, senza che gli interessi delle gallerie private intervengano sulla programmazione e sui tempi necessari a implementarla, imponendo il ritmo sincopato del consumo.

La rivista si chiama Quid Magazine in quanto vuole indagare sul "perché" delle cose. Per Vincenzo Trione che cos’è il quid?

Il quid è qualcosa che nessuna Accademia o strategia potrà mai insegnare, qualcosa che trasforma una persona in un talento inimitabile, quello che ritroviamo in alcune personalità nel mondo del teatro, dello sport, della letteratura. Se penso al quid penso a due grandi personalità a me vicine:  Picasso, dotato di un genio assolutamente unico, e Maradona, che, in un ambito completamente diverso, ha avuto un quid ineguagliabile.

 

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Lei è ancora più legato ad una concezione del bello classico, rinascimentale forse, o si rispecchia maggiormente in nuove forme di bellezza, in nuove forme d’arte?

No, non ho nessun interesse per il bello rinascimentale, né per quello neoclassico. Ritengo che l’unica forma di bellezza sia quella definita da Adorno come un “parallelogramma di forze”, con anche un gioco di antitesi e attriti, per me questa è la bellezza contemporanea.

Quando un artista può considerarsi realmente professionista affermato?

La realizzazione professionale è strettamente connessa alla possibilità di operare secondo i propri desideri e le proprie ambizioni, e questo non riguarda solo gli artisti, ma ciascuno di noi. Lo status di “artista affermato” non è necessariamente o esclusivamente attribuibile a chi espone alla Biennale o a Kassel, ma potrebbe anche essere associato a un artista che riesce a fare ciò che gli sta a cuore, permettendo al proprio lavoro di godere di visibilità e consenso anche fuori dai circuiti ufficiali: non necessariamente l’affermazione coincide con la consacrazione del sistema.

Recentemente abbiamo notato che ci sono artisti storicizzati, con una carriera a dir poco eccellente, che hanno delle quotazioni non proprio in linea con la loro Biografia… a cosa è dovuto questa incoerenza?

Secondo me sono fenomeni transitori. Caravaggio fino alla fine dell’800 non aveva grandi considerazioni storico-critiche né tanto meno mercantili, poi è diventato il fenomeno che tutti conosciamo. Alcuni artisti godono in vita di un’immensa consacrazione, Picasso ne è un esempio, al contrario, De Chirico – un artista che ho studiato per 20 anni - per tutta la seconda parte della sua vita era considerato un reietto, una figura marginale le cui opere avevano quotazioni minime, poi nel tempo ovviamente c’è stato un recupero. Le notevoli oscillazioni delle quotazioni degli artisti costituiscono un fenomeno connesso a  operazioni strategiche, a volte molto ben ponderate, finalizzate al recupero, al riscatto: viene redatto il catalogo generale, le quotazioni in asta possono essere pilotate, si nota l’arrivo in alcuni importanti musei. Se si riesce a seguire un cursus honorum anche gli artisti storicizzati riescono ad avere quotazioni importanti, ma perché si tratti di un’operazione significativa è pregiudiziale che un sistema costituito da galleristi, critici, direttori di musei e dealers decida di puntare su un determinato artista. Non mi soffermerei alla valutazione immediata, tutti possono avere speranze.

Oggi molte istituzioni: musei, fondazioni ecc. faticano a supportare l’arte contemporanea… Al di la dei problemi economici, gli intoppi causati da un sistema politico non sempre preparato, c’è qualche altro punto di non-incontro su cui bisogna riflettere?

No, al di là delle criticità del sistema, sicuramente ci sono dei problemi legati alla specificità dell’arte contemporanea, che talvolta è divenuta un linguaggio elitario capace di parlare solo a una stretta nicchia di adepti, quando invece sarebbe opportuno che ricominciasse a farsi racconto del mondo e che si riavvicinasse non a una sensibilità popolare, ma a una sensibilità diffusa, e, in questa prospettiva, secondo me, la street art si colloca come un fenomeno esemplare.

 

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Mettendo da parte i grandi nomi, i potentissimi nomi che tutti oggi conosciamo… chi è secondo lei l’artista del momento?

È molto difficile, le risponderei guardando oltre i confini del mondo dell’arte, a esperienze che, muovendosi ai margini di quel mondo, riescono ad approdare a un linguaggio nuovo, capace di parlare a una sensibilità diffusa: da un lato considererei la vicenda dei writers a livello internazionale, che, a mio avviso, rappresentano un fenomeno compiutamente fuori dall’arte che però arricchisce il mondo stesso, come quasi nessun altro; dall’altro lato, guarderei ai grandi illustratori, come il tedesco Niemann che sta operando una sostanziale reinvenzione del linguaggio dell’arte.

La street art deve scendere a compromessi?

No, secondo me nel momento in cui entra nei musei e viene sradicata dagli spazi pubblici è morta. La street art è bella quando non è nemmeno accompagnata da sigle o firme, esattamente com’erano gli affreschi nel medioevo, e vive all’aria aperta trasformando le città in immensi musei dove non paghi il biglietto per vedere l’opera. 

Dal punto di vista del mercato?

L’aspetto più straordinario della street art è la sua impermeabilità al mercato e rappresenta forse l’ultima forma di resistenza praticabile da chi si oppone alle sue logiche. Per quanto sia evidente l’esistenza di fenomeni a cavallo tra la strategia commerciale, mediatica e il mercato stesso, la street art a cui penso è quella che non scende a patti perché ha la forza della radicalità e dell’essere anti-sistema.

Qual è l’ “insegnamento” che secondo lei è il più importante o è più d’aiuto ai giovani artisti oggi?

Sarebbe importante evitare la ricerca del consenso immediato, riconsiderare il valore dello studio e del confronto con una grandissima tradizione, e penso al rapporto tra Michelangelo e i Papi che sostanzialmente diventavano, da un lato, grandi committenti e, dall’altro, avevano anche una dignità intellettuale in grado di alimentare una sfida che costringeva l’artista a mettersi in discussione. Detesto gli esercizi accademici, ma è necessario che gli artisti imparino a saper fare per poi magari dimenticare tutto, che frequentino i musei, che abbiano una formazione solida, una cultura visuale più ampia possibile e, ancora, che guardino un po’ meno al mondo della moda e della finanza e più al mondo della storia dell’arte: ho frequentato artisti importanti che non avevano letto libri, ma avevano una cultura visiva e un’esperienza enorme.

Quali sono le qualità che più preferisce in un artista, la tecnica, la ricerca o la profondità di pensiero?

Non mi interessa molto l’artista filosofo, perché per quello ci sono i teorici, ma qualcuno che riesca a farmi vedere il mondo come non lo avevo mai visto e che abbia anche la capacità tecnica e manuale che chiamo “il pensiero delle mani”, quello di dare forma a delle immagini. Questa capacità del saper fare resta imprescindibile negli artisti.