La profonda conoscenza della materia

 

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"L’arte contemporanea prima di tutto parte dai linguaggi espressivi, quindi dalle differenze di linguaggio espressivo e poi dalla materia". Incontro con la restauratrice di fama internazionale Isabella Villafranca Soissons.

By Camilla Delpero

 

Cos’è l’arte contemporanea?

Accademicamente l’arte contemporanea inizia dagli impressionisti e dalle avanguardie, purtroppo oggi non possiamo più definirla tale, neanche le case d’asta, Christie’s e Soteby’s danno due definizioni differenti di arte contemporanea. Per me in qualità di tecnico l’arte contemporanea prima di tutto parte dai linguaggi espressivi, quindi dalle differenze di linguaggio espressivo e poi dalla materia. Ci sono artisti che non considero contemporanei dal punto di vista della materia in quanto utilizzano ad esempio olio su tela. Ci sono forme espressive di arte legate alle metodologie di intervento che si sono usate per centinaia di anni, però dal punto di vista del conservatore, del restauratore del contemporaneo non danno le emozioni che danno altri materiali quali le plastiche, gli acrilici, i vinilici o gli alchidici. 

 

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Open Care, Restauro dipinti e opere polimateriche, ph credit Andrea Chisesi

 

“Prevenire è meglio che curare….” Quali sono i consigli che darebbe ai collezionisti che hanno una collezione, o opere particolarmente delicate che hanno bisogno di cure? Quali sono gli accorgimenti da fare per mantenere al meglio le opere in possesso prima di correre a restauri complessi?

Certamente, prevenire è meglio che curare soprattutto per quanto riguarda l’arte contemporanea. Nelle opere contemporanee c’è tolleranza zero nei confronti dell'intervento di restauro, il mercato dell’arte contemporanea ha valori altissimi che possono essere inficiati da interventi di restauro realizzati in modo inadeguato, da qualcuno che non conosce i materiali del contemporaneo, facendo molti danni. Prevenire è molto meglio che curare, l’arte contemporanea deve essere mantenuta più che restaurata, sono le piccole azioni che ci permettono di preservare nel tempo la materia che è fatta con tutto, con ready made assemblati arditamente che magari hanno coefficienti di dilatazioni different. Un legno assemblato con della plastica convive malamente: sono due materiali igroscopici molto sensibili a variazioni di umidità e temperatura, ma con reazioni differenti, quindi si possono creare delle grosse problematiche. Bisogna prestare attenzione all’arte contemporanea anche nel farla viaggiare. Anche solo i materiali di imballaggio posso creare problemi: le gomme uretaniche, lo abbiamo purtroppo imparato sul campo, imballate nel polistirolo si fondono con esso, quindi sono state rovinate. Tutto questo perché nessuno lo sapeva ancora. Non ci si improvvisa restauratori di arte contemporanea. In Italia non c’è un corso specifico, si parte da una preparazione di base per poi svolgere negli ultimi due anni una preparazione sul contemporaneo. Invece nei paesi anglosassoni o nordici, sono due percorsi già divisi dall’inizio. Due approcci teorici differenti. Non trovo sbagliato che ci sia una preparazione completa e che si abbia una cultura generale per poi fare approfondimenti, ma gli anglosassoni hanno un altro approccio.

 

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Open Care, Laboratorio dipinti e opere polimateriche, ph credit Alessandra Di Consoli 

 

Che differenza c’è nel restauro dei materiali utilizzati nelle opere del dopo guerra con quelle odierne?

Nel dopoguerra si usavano già materiali contemporanei, se si pensa che intorno al 1920 Gabo inizia già a utilizzare le prime plastiche e a sfruttare le doti estetiche, è notevole. Usava plastiche trasparenti come l’acetato di cellulosa, sfruttava l’interazione della trasparenza, della plastica con la luce e lo spazio intorno all’opera. Lo stesso se pensiamo ai materiali utilizzati nei ready-made di Duchamp. Gli artisti iniziano ad utilizzare dei materiali non convenzionali dopo la prima guerra mondiale. Per quanto riguarda i colori, si smette di utilizzare la tavolozza convenzionale a fine ‘800, in questo periodo si inizia la produzione dei primi colori in tubetto, da qui si inizia a sperimentare con alchidici, vinilici, acrilici fino ai primissimi anni ‘50 in cui sono già in produzione opere con materiali che definiamo contemporanei.

I nuovi materiali ora presenti hanno “peggiorato” alla situazione e il processo di restauro?

L’hanno complicata sicuramente, gli artisti non sono interessati al materiale che utilizzano, in quanto per loro è solo mero strumento espressivo, a differenza dei pittori antichi che utilizzavano materiali costosi, stabili come ad esempio il lapislazzuli. L’artista contemporaneo usa l’hic et nunc quindi qualcosa che deve essere utilizzato in breve tempo, fino a utilizzare anche materiali con un fine di implosione nel tempo, con lo scopo che si deteriorino e deperiscano. La mentalità del restauratore contemporaneo è quella di capire fin dove è lecito il suo intervento e dove si deve fare un passo indietro, non restaurare ma assistere, accompagnare alla morte l’opera il più lentamente possibile. Il tutto senza atteggiamenti invasivi nei confronti di un’opera che l’artista voleva implodesse o si autodistruggesse.

 

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Open Care, Restauro dipinti e opere polimateriche, ph credit Nicoletta Sperati

  

Come nasce Isabella Villafranca, la sua passione per il restauro?

Credo che sia cromosomica, nella mia famiglia ci sono stati dei grandissimi collezionisti, da centinaia di anni, io agisco sulle opere. La mia passione nasce da piccolissima, chiedevo a mia madre di portarmi per gallerie e musei. Abitavo a Torino e quindi il mio premio era andare per antiquari. A dodici anni ho trascinato mia mamma alla prima asta di arte contemporanea. Quindi ho avuto sempre questa passione per l’arte e per l’aspetto materico, mi piaceva toccare le opere, preservarle e mantenerle nel futuro.

Ha un esempio di qualche esperienza legata a opere create con materiale deperibile? Mi viene in mente un artista come Laib con le sue opere con il riso e polline, quali sono le azioni da compiere con tali opere?

Ho un esempio fatto con il polline esposto in una galleria di Torino chiamata “Verso” che ha chiuso, i cui proprietari li ho conosciuti in Iran. Ero andata in Iran assieme ad alcuni amici collezionisti e a Claudia Gian Ferrari per fare scouting di artisti iraniani. In questa occasione ho conosciuto questi galleristi che avevano acquistato delle opere di un artista che lavorava con il polline chiedendomi di allestire una mostra nella loro galleria. C’era una grandissima azione di manutenzione quotidiana da fare con questo polline in quanto era posato a terra e già solo il camminamento delle persone era devastante. Tutti si sentivano in dovere di toccare quindi c’erano sempre ditate su questo tappeto di polline e anche l’aria che si infiltrava da sotto le porte portava il polline ovunque. In questo caso c’era una manutenzione quotidiana.

 

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Open care, laboratorio arazzi tessili antichi e tappeti, ph credit Carlo Valsecchi

 

Un’opera che ha dovuto restaurare e che le è rimasta impressa.

L’opera che mi è rimasta impressa è l’opera che non sono riuscita a restaurare quella di Loris Cecchini un bidoncino in gomma uretanica. Questo per me è stato emblematico di ciò che fa un restauratore, che accompagna all’implosione un polimero di sintesi, una gomma uretanica di cui era composto questo bidoncino. Ha iniziato dapprima a diventare appiccicoso fino a che è iniziato a gocciolare, in quanto quando si interrompono i legami all’interno al polimero di sintesi non si posso più ripristinare. Quindi è stato un po’ un fallimento dal punto di vista del restauratore. È un qualcosa che ti rimane nel cuore. Invece direi l’opera che sono stata felice di restaurare, con cui ero in sintonia, era una plastica nera di Burri che è andata alla monografia al Guggenheim di New York. Questa è stata una bellissima sfida. Le plastiche che noi pensiamo durino per sempre, sono soggette a un deperimento sia fisico sia chimico quindi le platiche sono delicatissime. Non possono essere pulite con tutto, i solventi non sono indicati, addirittura l’acqua può creare delle problematiche. Si è trattato di fare delle operazioni di manutenzione, non lo chiamerei di restauro, ma è stata una bellissima operazione di ricerca dei materiali di intervento. Abbiamo messo a punto una metodologia di pulitura che non creasse dei problemi ad una plastica ”invecchiata” e quindi friabile, abbiamo lavorato anche con la 3M per creare dei collanti che ci permettessero di far aderire i filamenti che si erano strappati e mettere a punto la metodologia di incollaggio delle parti. È necessario lo studio dei materiali che spesso sono il 90% della tempistica dell’intervento. Sapendo di quale materiale nello specifico si tratta, avendo capito cosa usare per l’intervento poi quest’ultimo si riduce al 10%. C’è un lunghissimo studio anche perché a esempio le plastiche al loro interno posso avere il 50% di additivi: che possono essere ritardanti, coloranti, plastificanti, quindi ogni plastica può avere comportamenti differenti in base alla percentuale di ciò che la compone. Le stesse aziende produttrici chiedono anche l’anno in cui è prodotta l’opera in quanto a seconda del periodo in cui è stato prodotto il materiale può variare la sua composizione.

Un suo artista preferito?

Ne ho moltissimi. Mi piace molto l’arte contemporanea, quando sono andata a lavorare in Inghilterra e mi hanno messo a lavorare sul contemporaneo l’ho vissuta come una punizione e invece è diventata una malattia, sono felicissima di avere intrapreso questo corso in maniera casuale.

 

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Open care, restauro dipinti e opere polimateriche, ph credit andrea chisesi

 

La rivista si chiama Quid Magazine, vuole indagare su quella scintilla che muove il mondo e compone le cose, lei dove lo intravede il quid nel lavoro o nella vita?

Il nome mi piace molto, come le dicevo mi piace molto l’uso del latino. In un restauratore il quid si percepisce nell’avere una sensibilità particolare per l’arte contemporanea. Il quid che fa diventare un conservatore comune un restauratore di arte contemporanea è la capacità di penetrare il pensiero dell’artista, capire dov’è il momento di tirarsi indietro. Dopo aver intervistato l’artista e averlo reso partecipe al restauro, è necessario capire fin dove spingersi nell’intervento. Mi creda non è facilissimo. All’interno del laboratorio ho ragazze che lavorano al contemporaneo e una serie di restauratrici che lavorano sull’antico e non è così scontato che passino al lavoro sul contemporaneo. È proprio un approccio e lavoro differente. È una mentalità opposta. Il contemporaneo è divertente perché è tutta una sfida, un qualcosa di nuovo, parti da zero ogni volta, a parità di materiale le azioni possono essere ancora diverse, una plastica di Burri a seconda della plastica, dell’anno di produzione, a seconda di quanto l’abbia bruciata può avere delle reazioni differenti quindi ogni volta si riparte da capo con una serie di indagini.

Che tempistica hanno queste indagini?

Ogni opera che arriva facciamo una serie di indagini per sapere quali siano le problematiche che hanno portato ad avere bisogno di un restauro. Andiamo a capire se non sia l’ambiente in cui sono conservate che hanno creato delle problematiche di conservazione. Un esempio sulle plastiche alcune devono essere conservate in un ambiente areato, perché producono gas tossici, quindi se un’opera viene chiusa in una teca si crea una camera a gas accelerando il processo di implosione del materiale. Lo studio dei materiali, della caratterizzazione e l’analisi vanno fatte immediatamente. Per quanto riguarda la durata non c’è una risposta univoca. Abbiamo strumentalizzazioni portatili che combinano, a seconda delle indagini, i risultati fino a comporre il puzzle. Se poi le risposte che abbiamo ottenuto dalle indagini non sono esaustive, allora posso procedere al prelievo di materia e far fare a un chimico delle indagini più approfondite.

 

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 Open Care, Laboratorio dipinti e opere polimateriche, ph credit Carlo Valsecchi