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New York City, USA, 2000 © Elliot Erwitt / Magnum Photos

 

ELLIOTT ERWITT: i cani sono come gli umani, solo con più capelli

Il percorso espositivo originale esplora una delle parti più curiose ed interessanti, nonché note, della produzione del fotografo franco-americano, ovvero quella dedicata ai cani.

Suazes, in collaborazione con Fondazione Cassamarca di Treviso e Magnum Photos, organizza, presso gli spazi di Casa dei Carraresi, una grande mostra dedicata ad uno dei più importanti fotografi contemporanei, Elliott Erwitt.
Qui interpretato da un percorso espositivo originale, che esplora una delle parti più curiose ed interessanti, nonché note, della produzione del fotografo franco-americano, ovvero quella dedicata ai cani.
Una selezione che viene, con tali dimensioni, per la prima volta esposta in Italia, raggruppando oltre ottanta fotografie accompagnate da video, documenti e altro materiale dedicato al tema.

La mostra intitolata “Elliott Erwitt: i cani sono come gli umani, solo con più capelli”, curata da Marco Minuz, raccoglie una straordinaria selezione di fotografie dedicate a questo tema. In un percorso che spazia dagli anni cinquanta fino ai giorno nostri e che documenta la profondità e l’acutezza del lavoro fotografico di Erwitt su questo specifico tema. Le sue sono tutte immagini realizzate “dal punto di vista dei cani”. Spesso il fotografo pone il suo obiettivo ad altezza di cane, lasciando ai suoi padroni, il solo spazio di un piede o dei polpacci.

I cani sono tra i soggetti più amati dal fotografo. Non perché egli ne sia particolarmente affascinato (come lui sostiene), ma perché con il loro atteggiamento naturale e irriverente, fungono da perfetto contraltare alla pomposità ed alla ricercata compostezza dei loro padroni. E soprattutto, a differenza degli uomini, non hanno la pessima abitudine di pretendere una stampa delle foto che viene loro fatta!
Il titolo, tratto da una sua dichiarazione rilasciata in un’intervista, è già una guida per questa mostra che vuole essere un’opportunità per analizzare, con ironia e a volte cinismo, l’essenza profonda di questa ricerca che, attraverso il quadrupede peloso, mira all’essere umano.

Molte di queste immagini sono buffe e ritraggono animali che saltano o si mostrano sorpresi. Pose che sono ottenute, a volte, da Erwitt con un metodo preciso, ovvero suonando, poco prima di fotografare, una trombetta che spaventava i cani. Oppure, ricorrendo ad un unico forte latrato, emesso dallo stesso fotografo, che scatena la reazione dei cani che, all’improvviso, saltano, abbaiano, ringhiano, consentendogli di coglierli nella loro naturalezza. Escono così immagini di forte spontaneità, che fissano l’espressione animata degli animali.

Nelle fotografie di Erwitt non c’è un’attenzione particolare per il paesaggio; il suo occhio s’indirizza alla figure umane e sugli animali, per lui riflessi inconsapevoli delle abitudini degli uomini.

Erwitt è nato nel 1928 in Francia da una famiglia di emigranti russi. Ha trascorso la sua infanzia in Italia, sino al ritorno in Francia e poi al definitivo trasferimento negli Stati Uniti ed in particolare a New York. Nel 1953 entra a far parte della celebre agenzia fotografica Magnum Photos.
E’ universalmente annoverato tra i grandi maestri della fotografia mondiale di tutti i tempi. Il suo stile inconfondibile, caratterizzato dal bianco e nero e dal carattere ironico, è sempre mosso da un unico grande dogma: l’osservazione acuta della realtà circostante. Molte delle sue foto appartengono oramai al patrimonio visivo del secolo scorso. Celebri i suoi ritratti a personaggi storici come Marylin Monroe.

Nel corso della mostra sono in programma eventi dedicati al tema, con il coinvolgimento delle principali realtà territoriali del territorio.

 

 

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Mostra collettiva dei finalisti Premio Mestre di Pittura 2018

L’esposizione presenterà le opere dei cinquanta finalisti selezionati da una giuria di esperti; saranno inoltre esposte tutte le opere che hanno ricevuto il primo premio alle edizioni storiche della rassegna dal 1958 al 1967/68

Il Centro Culturale Candiani di Mestre ospita dal 22 settembre al 14 ottobre la mostra collettiva dei finalisti del Premio Mestre di Pittura 2018, organizzato dal Circolo Veneto, in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia e realizzato con il patrocinio di Regione Veneto, Città Metropolitana di Venezia e Comune di Venezia. L’esposizione presenterà le opere dei cinquanta finalisti selezionati da una giuria di esperti; saranno inoltre esposte tutte le opere che hanno ricevuto il primo premio alle edizioni storiche della rassegna – dal 1958 al 1967/68 - acquisite dal Comune di Venezia e conservate alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro.
Giunto alla sua seconda edizione, dopo quella del 2017, il ‘Premio Mestre di Pittura’ è un’iniziativa che intende riprendere il prestigioso Premio istituito nel 1958 a Mestre, che vide tra i suoi partecipanti straordinari protagonisti della pittura veneta del Novecento, ma che poi fu rapidamente abbandonato alla fine degli anni Sessanta, con la finalità di promuovere e valorizzare l’arte pittorica contemporanea.

L’edizione 2018 del concorso - aperto a tutti senza limiti di età, sesso e nazionalità - prevedeva l’esecuzione di opere di pittura a tema libero in piena libertà stilistica e tecnica. La pubblicazione del bando ha riscosso un grande successo tanto che, al termine delle iscrizioni (il 16 luglio), ha visto oltre 400 adesioni provenienti da tutta Italia, ma anche dall’estero (tra cui Cina e Finlandia). Da questi una giuria tecnica presieduta dallo scrittore, giornalista e accademico italiano Stefano Zecchi e composta da esperti e professionisti del panorama artistico e culturale come Gabriella Belli, direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia; Bruno Bernardi, Presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa; Carlo Boffi, Prefetto emerito di Venezia ed esperto d'arte; Michele Bonuomo, direttore del mensile ‘Arte’ Mondadori; Giuseppe La Bruna, Direttore dell'Accademia di Belle Arti di Venezia e Marco Dolfin, curatore della mostra e segretario di Giuria, selezionerà i cinquanta finalisti le cui opere saranno esposte dal 22 settembre al 14 ottobre al Centro Culturale Candiani.

Oltre alle cinquanta opere finaliste l’esposizione presenterà anche quelle vincitrici delle prime dieci edizioni del concorso provenienti dalla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, dove erano state collocate dopo esser state acquisite dal Comune di Venezia negli anni tra il 1958 e il 1968.
Tra queste figurano lavori di Ernani Costantini, Corrado Balest, Gigi Candiani, Riccardo Licata e Alberto Gianquinto.

Oltre all’esposizione al Candiani - attraverso la quale la Fondazione Musei Civici di Venezia prosegue nell’importante attività di sinergia con il territorio della Città Metropolitana, secondo le linee guida dell’Amministrazione Comunale - l’edizione 2018 del ‘Premio Mestre di Pittura’ prevede anche una speciale cerimonia di premiazione che si svolgerà il 28 settembre al Teatro Toniolo di Mestre durante la quale saranno proclamati tutti i vincitori, incluso il ‘Premio speciale Città di Mestre’ per l’opera che saprà esprimere al meglio il tema ‘Mestre città tra passato e innovazione’, istituito espressamente per questa edizione. 

La mostra sarà accompagnata da un catalogo edito da Grafiche Battivelli (Conegliano, 2018).

 

 

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Maurizio Cannavacciuolo Don't

 

INDART Industries Join Art

Un evento innovativo che promuove la produzione artistica sostenuta e supportata da una cultura mecenatistica legata al tessuto industriale del Paese.

Nella splendida cornice dell'Orangerie della Villa Reale di Monza, è ospitata dal 6 al 23 settembre la prima edizione della mostra "INDART - Industries Join Art", un evento innovativo che promuove la produzione artistica sostenuta e supportata da una cultura mecenatistica legata al tessuto industriale del Paese.

La rassegna vede, infatti, protagonisti venti artisti contemporanei abbinati a dieci aziende italiane d'eccellenza che, con il loro talento e la loro creatività, hanno trasformato in venti opere d'arte inedite le materie prime messe a loro disposizione dai partner del progetto.

La selezione degli artisti e l'accostamento alle aziende sono stati effettuati sulla base delle peculiarità di ciascun artista, da un Comitato Scientifico composto da importanti personalità del mondo dell'arte come Flavio Arensi, Valerio Dehò, Alberto Fiz, Franco Marrocco ed Elena Pontiggia.

Gli artisti sono: Giovanni Abanese, Arcangelo, Maurizio Cannavacciuolo, Anna Caruso, Tommaso Cascella, Aldo Damioli, Ulrich Egger, Massimiliano Galliani, Omar Galliani, Giuseppe Gallo, Paolo Grassino, Elio Marchegiani, Matteo Negri, Gianni Piacentino, Roberto Pugliese, Rosa Maria Rinaldi, Giampaolo Truffa, Luca Vernizzi, Dany Vescovi.

La mostra ideata e organizzata dall'agenzia di comunicazione Visionplus in collaborazione con la galleria VS Arte, gode dei patrocini di Regione Lombardia, Provincia di Monza e Brianza, Comune di Monza.

Una serie di materiali di differente estrazione tra cui alluminio, tessuto, plexiglass, carta, acciaio, gomma e vetro, tutti accomunati dalla componente metamorfica e dal grande potenziale creativo, sono stati trasformati dal talento degli artisti in venti opere, fra cui dipinti, collage, sculture e installazioni uniche nel loro genere, appositamente realizzate per l'occasione.

Il Comitato Scientifico ha selezionato artisti appartenenti a generazioni differenti, uniti dalla capacità d'interpretare il prodotto industriale con versatilità e ironia creando opere destinate a sviluppare una rinnovata sinergia tra settori generalmente distanti. Arte e realtà produttiva, dunque, s'incontrano al di fuori di ogni convenzione dando vita ad un dialogo estetico destinato a rinnovarsi nel tempo dove ad essere protagonista è il made in Italy.

Aldo Damioli e Dany Vescovi hanno utilizzato i tessuti di Anemotech, Giampaolo Truffa e Luca Vernizzi i tessuti e i filati di Ermanno Scervino, Paolo Grassino e Gianni Piacentino i componenti meccanici del Gruppo CMS, Tommaso Cascella e Roberto Pugliese il vetro del Gruppo Meregalli Vini, Ulrich Egger e Giovanni Abanese il ferro del Gruppo OMP, Arcangelo e Rosa Maria Rinaldi i pizzi di Iluna Group, Giuseppe Gallo e Anna Caruso il tessuto non tessuto di Montrasio Italia, Elio Marchegiani le carte adesive e le bobine di Pilot Italia, Matteo Negri e Maurizio Cannavacciuolo la cartotecnica e il plex di Studio FM, Omar Galliani e Massimiliano Galliani le carte pregiate della cartiera Burgo Group.

Il progetto INDART aspira anche a concedere all'arte contemporanea italiana un'occasione di visibilità oltre i confini nazionali, grazie a un progetto di ampio respiro che collega la città di Monza con la splendida cornice del Principato di Monaco, due città che storicamente sono già state molto vicine. Fu proprio nel meraviglioso roseto che incornicia l'Orangerie della Villa Reale di Monza, che nel 1970 la Principessa Grace di Monaco, madrina dello storico «Concorso Internazionale per Rose Nuove», consegnò personalmente i premi ai rosaisti vincitori.

In occasione del finissage della mostra giovedì 20 settembre, presso l'Orangerie della Villa Reale di Monza, sarà organizzata una cena dedicata al finanziamento delle attività del Comitato Maria Letizia Verga per lo studio e la cura della leucemia del bambino, che segnerà un simbolico passaggio del testimone tra Monza e Montecarlo. INDART, infatti, è un progetto che ha un forte valore sociale, in cui si realizza e si parla di un'arte non fine a sé stessa, ma capace anche e soprattutto di apportare un contributo positivo alla società in cui nasce e da cui trae ispirazione.

Successivamente la mostra sarà esposta, dal 27 settembre al 5 ottobre, nel Principato di Monaco presso Kamil Art Gallery. Al termine della rassegna verrà organizzata un'asta durante la Cena di Gala che si terrà nell'esclusiva location dello Yacht Club de Monaco. Un evento prestigioso, a cui prenderà parte S.A.S. la principessa Stéphanie di Monaco, presidentessa di una delle due associazioni che beneficeranno della vendita delle opere. Parte del ricavato dell'asta, finanzierà le attività dell'Associazione Fight Aids Monaco, da anni impegnata nella lotta contro l'AIDS e nel campo dell'informazione, prevenzione e sostegno dei malati, e del Comitato Maria Letizia Verga di Monza per lo studio e la cura della leucemia del bambino, da 39 anni impegnato a promuovere e finanziare progetti di ricerca, cura e assistenza per i bambini malati e per le loro famiglie. Due associazioni benefiche il cui operato è indiscutibilmente riconosciuto sia a livello nazionale sia internazionale.

Accompagna la mostra un esaustivo catalogo pubblicato da Bellavite editore con testi in italiano e francese.

VISIONPLUS

INDART - Industries Join Art è un progetto ideato e realizzato da Visionplus, event & communication agency con esperienza quindicennale, capace di spaziare con creatività, estro e rigore professionale tra diverse tipologie di progetti nell'ambito della comunicazione e degli eventi.

Visionplus affonda le sue radici su una mission imprescindibile: trasformare ogni progetto in qualcosa di unico e memorabile. Il suo approccio è caratterizzato dalla cura di ogni singolo dettaglio, dalla particolare attenzione alle esigenze di comunicazione e da una forte sensibilità per l'aspetto emotivo. Ogni progetto diventa così veicolo di messaggi tailor made, un momento coinvolgente, un'esperienza in linea con i trend attuali e aperta alle novità del contemporaneo. www.visionplus.it

 

 

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Dress Vehicles, installation view The Tanks: Art in Action, Tate Modern, London, 2012. Photo Studio Haegue Yang

 

FURLA SERIES #02 - Haegue Yang: tightrope walking and its wordless shadow

La Triennale di Milano e Fondazione Furla presentano una mostra che raccoglie la vasta gamma di mezzi espressivi che contraddistinguono la sua pratica: dal collage al video, dalle sculture performative alle grandi installazioni.

La Triennale di Milano e Fondazione Furla presentano Haegue Yang: Tightrope Walking and Its Wordless Shadow, una mostra a cura di Bruna Roccasalva, promossa da Fondazione Furla e dalla Triennale di Milano.

Prima mostra personale di Haegue Yang in un’istituzione italiana, Tightrope Walking and Its Wordless Shadow raccoglie la vasta gamma di mezzi espressivi che contraddistinguono la sua pratica: dal collage al video, dalle sculture performative alle grandi installazioni. L’estrema varietà dei riferimenti e delle visioni prodotte, che si muovono su una sottile linea tra l’indagine sociale e la storia, tra il vissuto personale e la memoria collettiva, genera percorsi immaginifici di grande potenza evocativa in cui oggetti, persone e luoghi sono inestricabilmente interconnessi.

Tightrope Walking and Its Wordless Shadow si articola in tre ambienti che attraverso la combinazione di lavori iconici e nuove ambiziose produzioni – che rappresentano nodi cruciali nella produzione dell’artista dal 2000 a oggi – restituisce gli elementi ricorrenti nel suo lavoro: l’interesse per l’astrazione e la geometria; il movimento e la performatività; la relazione tra “piegare” e “dispiegare”, che l’artista esplora come pratiche interconnesse. Al centro c’è la sua ricerca dell’“inesprimibile”: l’urgenza di creare un linguaggio la cui potenzialità è come la camminata di un funambolo, in cui ogni movimento è molto più che dinamico, è carico di una tensione che evoca emozioni e percezioni.

Aprono il percorso due lavori esposti raramente in passato ma considerati seminali: 134.9 m³ (2000-2018) e 81 m² (2002-2018), appartenenti rispettivamente alle serie Thread Installations e Chalk Line Drawings. 

134.9 m³ è una barriera quasi invisibile costituita da fili di cotone rosso - tesi tra due pareti a intervalli di 10 cm e con l’impercettibile inclinazione di un grado - che isola un angolo della sala precludendone l’accesso. Il tracciato sembra proseguire sul muro retrostante con 81 m²: una sequenza di linee rette disegnate a gesso rosso che si confondono con i fili, creando un effetto ottico di sottile movimento.

Thread Installations e Chalk Line Drawings, che prendono di volta in volta il titolo dalla misura dello spazio occupato, sono tra le prime opere di natura installativa realizzate da Yang e contengono in nuce aspetti centrali di tutta la sua produzione successiva: dall’interesse per la geometria all’impiego di materiali d’uso comune, fino all’attitudine ad articolare una spazialità ambivalente, concettuale e percettiva, accessibile e inaccessibile allo stesso tempo.

All’interno della porzione di spazio delimitata da queste due installazioni, si intravvede un altro dei primi lavori dell’artista, Science of Communication #1 – A Study on How to Make Myself Understood (2000), che testimonia il suo continuo e faticoso confronto con le problematiche del linguaggio all’interno dei processi di integrazione culturale e sociale. Il testo inizialmente scritto da Yang come flusso di riflessioni personali in una commistione indecifrabile di lingue è stato successivamente editato, tradotto in inglese e restituito in forma comprensibile da un traduttore professionista. L'artista muove dalla propria vicenda biografica - si è trasferita nel 1999 in Germania dalla nativa Corea per completare gli studi universitari a Francoforte – e dalla difficoltà incontrata quotidianamente nel tradurre il proprio pensiero in una lingua straniera.

La necessità della mediazione altrui per realizzare quest’opera esprime l’insicurezza e la vulnerabilità dell’artista, ampliando allo stesso tempo la riflessione alla più generale difficoltà, se non impossibilità, di comunicare se stessi attraverso il linguaggio.

Questo sentimento di incomunicabilità echeggia anche in Mirror Series – Back (2006), uno specchio ovale appeso con la superficie riflettente rivolta verso la parete, come a dare le spalle allo spettatore e al mondo, con un gesto di negazione cosciente e di rifiuto attivo di un ruolo prestabilito e convenzionale. L’opera fa parte di un gruppo di sei lavori (Mirror Series, 2006-2007) in cui l’artista indaga diversi modi attraverso cui uno specchio può venire meno alla funzione di riflettere l’immagine di fronte a sé. Mirror Series esemplifica anche il peculiare approccio alla figurazione di Yang, che nei suoi lavori allude alla figura umana senza mai rappresentarla direttamente o, come in questo caso, evocandone l’assenza.

Dalle “barriere permeabili e trasparenti” di 134.9 m³ si passa a Cittadella (2011), una monumentale installazione composta da 176 tende veneziane che occupa lo spazio centrale della mostra: un ambiente multisensoriale fatto di complesse strutture modulari, attraversate dai visitatori che si muovono al suo interno e da una coreografia ipnotica di luci, mentre diversi profumi si diffondono nello spazio alludendo a un “altrove”. Il titolo Cittadella rimanda a una fortificazione impenetrabile ma l’esclusività di questa architettura è parzialmente illusoria. Le pareti di tende attraversate dai fasci di luce si rivelano permeabili allo sguardo, e i passaggi che si aprono nella geometria esterna della struttura invitano lo spettatore ad addentrarsi e attraversarla. 

Da questo suggestivo e immersivo percorso si passa a un altro ambiente, una sorta di sala da ballo sulle cui pareti si dispiega un intervento simile a un murales appartenente alla serie in continua evoluzione dei Trustworthies (iniziata nel 2010). In questo importante ciclo di opere Yang combina diversi materiali grafici: buste con pattern stampati, la sua personalissima rielaborazione della carta millimetrata (Grid Blocs, iniziata nel 2000), vinili riflettenti, immagini di dispositivi tecnici e motivi naturalistici. La serie nasce con la casuale scoperta da parte dell'artista dell’affascinante varietà dei pattern della carta di sicurezza, la stampa usata per l'interno delle buste di documenti con la funzione di proteggere la natura confidenziale del loro contenuto. Mettendo in luce le possibilità estetiche di questi pattern, Yang li usa per creare dei collage: inizialmente paesaggi astratti composti da semplici linee orizzontali, che nel tempo assumono composizioni sempre più complesse - onde, rifrazioni, mulini a vento, composizioni a x, intrecci, caleidoscopi - e incorporano materiali eterogenei come carta da origami, carta vetrata, carta olografica, carta millimetrata, fino a uscire dai confini delle cornici per occupare l’intera parete. Negli interventi più recenti, come quello in mostra, i Trustworthies sono diventati per l’artista uno strumento per creare complesse ambientazioni che ospitano lavori scultorei.

Le figurazioni immaginifiche che si dispiegano lungo le pareti della sala fanno da cornice alla “danza” di due sculture performative della serie Dress Vehicles (inziata nel 2011) prodotte per l’occasione.

Ispirati a forme e concezioni diverse di danza, come le Danze Sacre dello spiritualista russo Georges I. Gurdjieff e i costumi geometrici dei Triadic Ballet (1922) di Oskar Schlemmer, i Sonic Dress Vehicles presentati in mostra, sono pensati dall’artista per “vestire” il pubblico e, come “maschere”, dare a chi le indossa una diversa identità, rivelando allusioni ai travestimenti delle drag queen, alle danze tradizionali con le maschere e al teatro delle marionette. 

Per Yang la danza è qualcosa di più di un genere, è una forma complessa di espressione, in cui impulsi fisici, socio-politici, spirituali e ritualistici convergono. I suoi Dress Vehicles non consentono molta libertà di movimento: secondo l’artista infatti è nel semplice esercizio di spingere queste gigantesche strutture che si può sentire il "peso" della danza, avere la sensazione di essere “sovrastati” da questi splendidi costumi o, al contrario, “emancipati” dalla possibilità di muoverli nello spazio. Corpi ibridi in cui architettura, scultura e performance si fondono, i Sonic Dress Vehicles sono anche una sintesi perfetta della sfaccettata natura del lavoro di Yang che la mostra racconta. 

Dall’approccio minimalista che contraddistingue la prima sala all’esuberanza fastosa dell’ultimo ambiente, il percorso espositivo riflette gli estremi tra cui si muove la sperimentazione continua di Haegue Yang, in cui l'incontro casuale con un oggetto o un materiale può generare forme, emozioni e narrazioni inaspettate e dove la negazione di conoscenze acquisite coincide sempre con l’apertura di nuove prospettive. 

Durante l’inaugurazione si svolgerà nelle sale della mostra il concerto Encountering Isang Yun, dedicato all’opera del compositore coreano Isang Yun (1917-1995), in cui sarà presentata una selezione delle sue composizioni per oboe e violoncello: Ost-West-Miniatur I (1994); Piri (1971); Glissées (1970); Ost-West-Miniatur II (1994).

Catalogo in occasione della mostra sarà pubblicata l’antologia Haegue Yang: Tightrope Walking and Its Wordless Shadow, curata da Bruna Roccasalva ed edita da Skira editore.

Il volume, in edizione bilingue (inglese/italiano), raccoglie una selezione delle interviste e dei saggi più significativi sul lavoro dell’artista dal 2006 al 2018 ed è corredato da un ricco apparato iconografico con opere storiche e documentazione dei lavori in mostra. 

 

Haegue Yang: Tightrope Walking and Its Wordless Shadow 

a cura di Bruna Roccasalva

7 settembre – 4 novembre 2018

Triennale di Milano

 

 

fotografia contemporanea

 

 F4 / UN'IDEA DI FOTOGRAFIA

Al via l'Ottava edizione del Festival di fotografia contemporanea da Mario Giacomelli alle ricerche emergenti  sul rapporto tra individuo e società

Villa Brandolini a Pieve di Soligo (TV) inaugura l'ottava edizione del Festival F4 / un'idea di Fotografia promosso dalla Fondazione Francesco Fabbri in collaborazione con il Comune di Pieve di Soligo e con la direzione artistica di Carlo Sala. Una serie di mostre che offrono uno spaccato sulla fotografia contemporanea: dalla grande mostra dedicata a Mario Giacomelli fino alle ricerche più innovative del panorama italiano, avendo come tema unificante il rapporto tra l'individuo e la società. Le mostre del Festival F4 / un'idea di Fotografia rimarranno aperte fino al 26 agosto 2018

Il Festival si apre con un'ampia mostra antologica dedicata a Mario Giacomelli, uno dei più grandi fotografi italiani del Novecento, promossa in collaborazione con il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo-Milano. L'esposizione Mario Giacomelli. Il corpo della terra, curata da Carlo Sala, presenta i due cicli più importanti dell'autore, i Paesaggi e l’Ospizio (in un secondo momento rinominato con il titolo tratto della poesia dello scrittore Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi), che contribuiranno a conferire all'autore una notorietà internazionale.
Nei Paesaggi di Mario Giacomelli, anche se ritraggono le dolci colline marchigiane, si sente appieno l'eco delle ricerche dell'arte informale europea che cercano una "forma altra" rispetto al reale. Come è noto, l'autore per realizzarli chiede ai contadini suoi conoscenti di tracciare sulla terra dei segni con i loro trattori, modificando così il territorio; in fase di stampa poi l'artista accentua questi segni dimostrando una grande libertà, voglia di sperimentazione e perizia derivanti anche dalla sua precedente attività di tipografo. Una visione che tende a forzare il reale e piegarlo verso le forme dell'astrazione.
In Verrà la morte e avrà i tuoi occhi l'artista racconta la situazione di solitudine e desolazione nell'ospizio di Senigallia nelle Marche, sua città natale; oltre ad essere un affresco sociale senza pari, è una meditazione sul tempo e sull'ineluttabilità della morte dove emerge un profondo senso del tragico fatto di grandi contrasti all'interno delle fotografie in bianco e nero.
Tra i due filoni, solo apparentemente distanti, si trovano tutta una serie di legami profondi nel vedere il paesaggio come un corpo. E' lo stesso Giacomelli a spiegarlo: «Il paesaggio all'inizio è nato pensando alla materia stessa dell'uomo, la carne: la terra è uguale alla carne dell'uomo». Nella riflessione che compie sui valori della spiritualità della terra, della mutazione di un territorio in abbandono, arriva a sublimarlo in un corpo: «E allora, guardandolo, ho visto le sue ferite, i segni » e continua dicendo «i calli che l'uomo aveva un tempo sui palmi delle mani, la terra ancora li porta».
Nel percorso dedicato a Mario Giacomelli, l'artista Fabio Roncato ha inserito il lavoro Parallels / Parallele quasi fosse un omaggio all'autore marchigiano, creando così una riflessione sul rapporto fra uomo e natura in termini estetici e sociali.
 
A seguire l'esposizione collettiva Around me. Traces of presence in biopolscapes presenta il lavoro di tre autori emergenti del panorama nazionale che con le loro ricerche indagano alcune questioni di stretta attualità. La mostra vuole essere una riflessione su come oggi i temi della biopolitica possano trovare delle nuove applicazioni, nel delineare gli elementi intangibili che condizionano il rapporto tra individuo e società.
Il ciclo Supervision di Irene Fenara è composto da una serie di immagini provenienti da videocamere di sorveglianza, che normalmente sarebbero cancellate dopo 24 ore. L'artista rivela un paesaggio dominato da una estetica del controllo, seducente e distopica al tempo stesso, dove anche se l'uomo non compare apertamente nelle sue fattezze, è presente attraverso delle tracce immateriali, i suoi dati raccolti dagli apparecchi di controllo che attraverso il loro carattere reversibile rendono anche il controllore un controllato.
Alessandro Calabrese con le opere del progetto The Long Thing indaga la condizione di un lavoratore che si scontra con la burocrazia: gli oggetti che popolano il suo quotidiano (faldoni, cartelline, carta millimetrata) ci appaiono sotto forma di astrazioni create da uno scanner che ne ha decostruito le forme; le opere sono così giocate su minime variazioni che sembrano rendere lo stato di noia a apatia a cui è soggetta la persona.
Alessandro Sambini per realizzare i lavori che compongono la serie Spelling Book - learning from Caltech 256 ha attuato un processo dove il computer, attraverso un algoritmo, cerca di apprendere le varie classi di immagini di cui è composto un dataset. Questo processo ha generato delle forme iconiche che sono una sorta di alfabeto visivo del nostro tempo, ponendo anche una serie di riflessioni sull'impatto che il machine learning ha sull'uomo.
 
In un percorso articolato tra fotografie, installazioni, documenti di finzione ed objets trouvés raccolti tra i Balcani e la Romagna, L'albero del latte di Silvia Bigi, a cura di Francesca Lazzarini, esplora invece il tema dell'identità di genere, sollevando riflessioni sul ruolo della donna nella società contemporanea.
Prodotta dalla Fondazione Dino Zoli di Forlì nell'ambito del programma Who's next, teso alla promozione e al sostegno della creatività emergente, la mostra nasce da un ritrovamento casuale: la fotografia delle sorelle Vukosava e Stana Cerovic, quest'ultima – in sembianze maschili – ultima vergine giurata del Montenegro. La scoperta dell'esistenza delle tobelije – donne disposte a rimanere vergini e a trasformarsi in uomini pur di assicurarsi una vita indipendente in una società fortemente patriarcale – è il punto di avvio di una ricerca che, toccando temi come matrimonio, dote, sessualità e perpetuazione delle norme di genere, insegue la domanda che ha ossessionato l'artista fin dal ritrovamento: sebbene viviamo in un contesto diverso, non siamo forse tutte come Vukosava e Stana?
In tempi in cui il femminicidio è argomento alla ribalta di tutti i canali di informazione nazionali, L'albero del latte risale alle origini della questione, interrogandosi sul rapporto tra natura e cultura e sulle possibilità di sovvertire le norme sociali dominanti.
 
A conclusione le opere del vincitore della sesta edizione del Premio Fabbri, Alberto Sinigaglia, che presenta la serie fotografica Microwave City incentrata sulla città di Las Vegas, vista come un archetipo visivo della messa in scena permanente che genera un immaginario effimero, sospeso tra realtà e finzione. Le opere raccontano il profondo legame della metropoli con la bomba atomica perché durante gli anni Cinquanta una delle attrazioni cittadine era la possibilità di osservare i test nucleari dalle terrazze degli hotel e i turisti scattavano immagini di quelle drammatiche e potenti scene, trasformandole in ricordi delle loro vacanze. La bomba è anche mimetizzata in oggetti apparentemente quotidiani e inerti che la raccontano, pur senza mostrarla apertamente. L'autore ha infatti realizzato degli still-life ritraendo alcuni oggetti, collezionati durante il suo viaggio negli Stati Uniti, che hanno una relazione con il Manhattan Project come ad esempio un monolite che sembra provenire dal deposito di grafite che Enrico Fermi usò per la costruzione della Chicago Pile nel 1942, il primo prototipo di reattore a fissione nucleare. Il progetto Microwae City attraverso queste immagini di memorabilia vuole creare una riflessione metaforica sul rapporto tra il visibile, la storia e il potere.