L’ART SHARING: ACQUISTO IN COMPROPRIETÀ DI OPERE D’ARTE di Lucianna Gargano 

 

Lucianna Gargano

 

L’art sharing, ovvero l’acquisto di opere d’arte in comproprietà, rappresenta uno strumento che, oggi ancora in fase di sperimentazione, si inserisce in un contesto in cui, complici l’era digitale e la contemporanea crisi pandemica, si assiste ad una trasformazione epocale che interessa ogni ambito e settore tra cui, appunto, anche il mercato dell’arte.

Tra i vari obiettivi vi è quello di trasformare le opere d’arte in beni “liquidi” fruibili da diversi proprietari, incoraggiando in tal modo anche le nuove generazioni ad esplorare ed investire in tale ambito.

Si tratta di una vera e propria innovazione, oltre che di un’opportunità per l’apertura di un canale di vendita completamente nuovo, di ampio raggio e più fluida gestione: molte sono infatti le start-up che si stanno affacciando a tale “universo”, i singoli appassionati di arte e non, come anche alcune realtà museali di un certo rilievo.

L’acquisto (della porzione) dell’opera avviene a mezzo dell’acquisto di una o più quote della stessa – distribuite tra due o più soggetti, ad un prezzo determinato sulla base del valore a sua volta attribuito all’opera medesima – finalizzato alla successiva rivendita e dunque al conseguimento di un profitto, ovvero, in via preliminare o alternativa, alla detenzione che contestualmente ne consenta l’esposizione museale per un tempo determinato, precedentemente concordato tra i soggetti comproprietari.

In considerazione della circostanza per la quale, come detto, si tratta di uno strumento in via di definizione, tale si rivela anche la sua connotazione giuridica, ragione per la quale spesso si assiste a fenomeni di prassi con riferimento ai quali solo un'adeguata analisi del funzionamento ne consente un altrettanto adeguato inquadramento giuridico.

Nell’assunzione che l’operazione sia assoggettata al diritto italiano, se è sicuramente vero, infatti, lo strumento in questione prende le basi dalle disposizioni in materia di comunione legale di cui agli artt. 1100 ss. del Codice Civile, altrettanto innegabile risulta il fatto che con riferimento ad alcune specifiche determinazioni, al contrario se ne discosta o quanto meno manifesta sfumature riconducibili a fenomeni giuridici diversi e/o ulteriori.

La dirimente, in tal senso, è rappresentata dalla tipologia di soggetti che decidono di avvalersi dello strumento de quo e dalle modalità con le quali l’esplicitazione della comproprietà viene posta in essere: qualora, invero, non si tratti di operatori del settore – di cui sotto si dirà ed il cui obiettivo è quello di porre in essere una gestione congiunta delle opere acquisite che di conseguenza sarà ricondotta alle regole individuate dai richiamati articoli in materia di comunione legale – si assisterà alla creazione di specifiche piattaforme social che si troveranno ad agire alla stregua di veri e propri gestori di prodotti finanziari.

Ed è proprio con riferimento a tale ultimo aspetto che risulta dunque interessante, sulla scorta degli esempi rinvenuti nel mercato di riferimento, riportare, di seguito, i vari step che caratterizzano il modus operandi che può considerarsi più comune:

  1. Costituzione di una piattaforma digitale ad hoc, che consenta l’incontro tra la domanda e l’offerta sulla base di un regolamento che individui e definisca diritti ed obblighi degli acquirenti, nonché oneri ed obblighi dei gestori della piattaforma stessa, la cui accettazione costituirà il substrato per la sottoscrizione del relativo contratto e dunque per il futuro acquisto.
  2. Individuazione dell’opera, del valore di questa e quindi del c.d. “target”.
  3. Individuazione del timing di riferimento, ovvero dell’arco temporale in cui si procederà alla campagna di vendita delle quote ed oltre il quale la campagna di vendita dovrà considerarsi conclusa e la vendita non perfezionata.
  4. Sottoscrizione di una o più quote di medesimo valore – precedentemente determinato sulla base del valore complessivo e del prezzo attribuito all’opera – e contestuale versamento del valore della o delle quote, sulla base della condizione per la quale, qualora non si addivenisse alla sottoscrizione di tutte le quote, e dunque non si raggiungesse il “target”, ai partecipanti verrebbero restituite le somme precedentemente investite.
  5. Inizio di un percorso museale che avrà ad oggetto il prestito dell’opera al museo, e successivamente, ovvero, in alternativa, vendita dell’opera condivisa, con una specifica ed attenta valutazione del rapporto costi-benefici per gli utenti.
  6. Divisione dei proventi della vendita in maniera proporzionale tra tutti i comproprietari.                                                                                                                                  

Sulla scorta di quanto sopra, risulta estremamente di interesse, ai fini di che trattasi, l’intervento della Suprema Corte la quale, nella sentenza n. 05911 del 2018, riconducendo al contratto di investimento una costruzione contrattuale avente ad oggetto una compravendita di opere d’arte garantita da un diritto di “ripensamento” con restituzione del bene nel termine previsto, avvalendosi di una propria precedente pronuncia (Cass. n. 2736/2013, avente ad oggetto un investimento in diamanti collocati attraverso la rete di vendita di un istituto bancario) ha chiarito che, sebbene non tipizzato dal Testo Unico della Finanza, il contratto di investimento si presta a divenire la forma giuridica di ogni investimento di natura finanziaria, laddove, specifica la Corte sulla scorta del suddetto richiamo, “l’investimento di natura finanziaria comprende ogni conferimento di una somma di denaro da parte del risparmiatore con un’aspettativa di profitto o di remunerazione, vale a dire di attesa di utilità a fronte delle disponibilità investite nell’intervallo determinato da un orizzonte temporale, e con un rischio”, ove, con specifico riferimento a tale ultimo aspetto, tale è da ritenersi, concludono i Giudici, il c.d. “rischio emittente”.

Orbene, se le operazioni sin qui descritte possono considerarsi peculiari e per questo affascinanti in quanto rivolte ad una platea consistente e nuova di soggetti (anche giovani) che, seppur con il fine ultimo dell’aspettativa di un profitto – che avvenga immediatamente dopo l’acquisto, ovvero solo a seguito del completamento di un percorso museale concordato – si caratterizzano per un avvicinamento al mondo dell’arte prima d’ora non così diffuso, altrettanto interessante risulta il diverso utilizzo dell’art sharing oggi in esame da parte di operatori del settore che possono definirsi operatori “celebri” del panorama internazionale.

Il primo esempio è rappresentato dall’acquisto in comproprietà avvenuto tra il governo francese e quello olandese, avente ad oggetto due celebri opere di Rembrandt originariamente di proprietà della famiglia Rothschild: l’acquisto congiunto si è perfezionato per 160 milioni di euro e le due opere si alterneranno tra museo del Louvre di Parigi ed il Rijksmuseum di Amsterdam.

Altro esempio è rappresentato dall’acquisto in comproprietà avvenuto tra la National Gallery di Londra e la National Galleries of Scotland, le quali hanno acquistato nel 2012 un dipinto di Tiziano che viene esposto a turno in ciascuno dei due musei ogni diciotto mesi.

Da ultimo, non in ordine di importanza, un esempio di art sharing “nostrano”: il comune di Prato e l’Associazione per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci della stessa città hanno acquisito in comproprietà (otto tredicesimi il Comune ed i restanti cinque tredicesimi l'Associazione) tutte le opere del Centro Pecci. All’acquisto, che risponde all’esigenza di salvaguardare il patrimonio artistico locale, è seguita la creazione di una nuova Fondazione, gestita dallo stesso Centro, con il vincolo che la stessa, in caso di prestiti o depositi superiori ad un anno, dovrà chiedere l'autorizzazione preventiva ai due soggetti proprietari.

 

Lucianna Gargano

Senior Associate presso Loconte&Partners.