La storia del Museo delle Culture di Lugano, il suo lavoro di ricerca e di valorizzazione raccontato dal suo Direttore

 

Paolo Campione 3Ph. Adriano Heitmann 
 
 

"Il viaggio mi ha permesso di scoprire la bellezza del mondo." Intervista al Direttore del MUSEC Francesco Paolo Campione.

By Camilla Delpero

 

Quanto tempo richiede un grande progetto espositivo? Progetti come «Je suis d’autre» oppure come «Dayak. L’arte dei cacciatori di teste del Borneo»?

Bisogna distinguere fra due generi di grandi esposizioni. Il primo richiede molto tempo ed è tipico dell’attività di un museo. Un progetto come «Je suis d’autre» non nasce da un anno all’altro, ma richiede una lunga maturazione e lo svolgimento di seminari, incontri, studi, piccole esposizioni temporanee che precedono e animano l’evento finale. In questo caso il MUSEC si è occupato continuativamente del tema del Primitivismo dal 2008 al 2019. Poi, quando si è raggiunta una certa massa critica di competenze e autorevolezza su un certo tema, si può mettere in programma un evento di particolare importanza. Il secondo genere di attività espositive è dato da circostanze eccezionali, come la richiesta di un partner prestigioso o una disponibilità economica o di opere inaspettate, grazie alle quali si possono realizzare progetti in tempi decisamente rapidi.

 

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Allestimento  a Villa Malpensata (Lugano) dell'esposizione Dayak, © 2019 FCM/MUSEC, Lugano.

 

E le esposizioni più piccole?

Anche quelle rientrano nelle cadenze a lungo termine della programmazione, ma hanno all’occorrenza la possibilità di essere realizzate in tempi molto brevi.

Quanto brevi?

Un anno.

Quali sono le cadenze della vostra programmazione?

La programmazione del MUSEC è a cinque anni. L’operatività di un progetto comincia normalmente circa due anni e mezzo prima.

Quali sono le difficoltà di finanziare grandi esposizioni temporanee?

Esposizioni come «Je suis l’autre», appena conclusa su due sedi (Roma e Lugano) o come «Dayak» richiedono investimenti ingenti, sia per realizzare allestimenti che tutelino e valorizzino le opere esposte, sia per gli alti costi dei trasporti e delle assicurazioni. Poi vi sono i costi di comunicazione, sempre più alti se si vuol richiamare un pubblico numeroso, investimenti ai quali non possono rinunciare ormai nemmeno i pochi musei internazionali che attirano pubblico e sponsor per il loro nome, e i cui progetti espositivi, tutti danno per scontato debbano essere al livello della loro storia. Nel caso di Lugano (non solo del MUSEC), i problemi maggiori sono due: il primo è la necessità di consolidare un’immagine di città d’arte che fidelizzi un pubblico nella lunga durata, specialmente verso la Lombardia, che è il nostro naturale bacino di clienti; il secondo strettamente correlato al primo, è il problema dell’utilità marginale degli investimenti in comunicazione. Gli investimenti in pubblicità per le mostre d’arte a Lugano hanno un coefficiente moltiplicatore minore o uguale a uno, cioè vuol dire che se si investono 100.000 CHF in comunicazione si attende una crescita di pubblico minore o uguale alla cifra investita. Nelle grandi città europee il moltiplicatore è maggiore di uno, producendo un utile in termini di biglietti e vendite al bookshop che è in molti casi anche due o tre volte la cifra investita.

 

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Allestimento  a Villa Malpensata (Lugano) dell'esposizione Dayak, © 2019 FCM/MUSEC, Lugano. 

 

I contributi pubblici, degli sponsor o dei mecenati?

Il contributo che riceviamo oggi annualmente dal Cantone Ticino è di 30.000 CHF, una cifra purtroppo insufficiente. Va molto meglio con sponsor e mecenati, ma il lavoro da fare in tal senso è ancora tanto e la concorrenza sul territorio è molto forte.

Le esposizioni d’arte contemporanea costano meno?

Costano molto meno, da tutti i punti di vista. È un altro mondo, un mondo principalmente governato da regole di mercato, nel quale il museo si inserisce all’interno di una rete che è volta anche ad accrescere il valore delle opere dell’artista esposto. Per cui è anche più facile trovare un maggior sostegno economico e sinergie per la comunicazione. Questo di certo può accadere solo molto marginalmente con un’esposizione di arte etnica e orientale.

 

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Ba’. Gerla porta-neonato utilizzata per i bambini dell’alta aristocrazia, decorato con la raffigurazione di uno spirito protettore.
Borneo orientale. Etnia Kenyah. Prima metà del XX sec. Collezione privata. © 2019 FCM/MUSEC, Lugano. 

 

Quanto viaggia per il suo lavoro?

Il mio è un mestiere che richiede di viaggiare moltissimo e di conoscere molta gente. È una condizione necessaria allo sviluppo e all’affermazione del Museo, così come è importante far sì che il proprio Museo sia una meta ambita da molti stakeholder. La rete delle relazioni, per un’organizzazione culturale, è una necessità basilare.

È sempre un piacere o a volte la stanchezza si fa sentire?

Dal 1986 al 2010 non è mai stata una fatica; negli ultimi anni il viaggio inizia ad affaticarmi perché le occasioni sono sempre di più, al punto che bisogna declinare purtroppo la gran parte degli inviti e lasciar perdere anche molti progetti interessanti.

Cos’è per lei la bellezza. Esiste?

Potrei rispondere dicendo che la ricerca della bellezza è stata e continua a essere uno dei fenomeni più evidenti delle culture e che non vi è una cultura che non l’abbia cercata e, a modo suo, non l’abbia trovata. In un mondo sempre più globalizzato il giudizio sulla bellezza tende a essere oggi sempre più uniforme e dunque più universalmente condiviso. Ciò premesso, a un livello più personale, dettato dai miei studi, dalla mia personalità, dal mio gusto, per me la bellezza è qualcosa che declina verso la semplicità, verso la capacità di attrarre con pochi elementi, verso l’armonia. Trovo che una persona sia bella quando coniuga armonicamente i valori con le forme. L’armonia come piena risonanza di contenuti e di forme produce una bellezza piena e profonda, qualcosa che diviene contemplativo.

 

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Sapundu. Sezione sommitale di un palo cerimoniale di carattere funerario, raffigurante una coppia di dignitari stretta in un abbraccio.
Borneo meridionale. Etnia Ngaju. XIX sec. MUSEC, Lugano. Donazione Brignoni, © 2019 FCM/MUSEC, Lugano.

Avete guadagnato o perduto qualcosa con la nuova sede rispetto all’Heleneum?

Abbiamo guadagnato da ogni punto di vista. Abbiamo aumentato la superfice espositiva, abbiamo acquistato centralità, siamo vicini agli assi di comunicazione, e inoltre abbiamo due palazzine intere per gli uffici e i servizi. Non c’è aspetto di carattere museografico di cui non abbiamo accresciuto il valore. Dell’Heleneum abbiamo nostalgia per il suo incantevole genius loci, per il fascino e la magia che esprime in ogni stagione e per i tanti bei ricordi legati allo sviluppo del nostro progetto.

 

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Attuale sede del Museo delle Culture a Lugano, © 2019 FCM/MUSEC, Lugano.

L’arte un secolo fa era medium di discussione, di cambiamento, cui ci si ispirava per andare contro l’apparenza, contro l’ovvietà. L’arte di oggi dove porta? Può essere ancora forte come fu l’arte del primo Novecento?

Le scoperte delle Avanguardie sostennero un nuovo paradigma esistenziale, diretto e rivoluzionario, un paradigma centrale nella trasformazione più complessiva dei costumi e del mondo. Oggi l’arte non ha più capacità rivoluzionaria ed è connotata semmai dalla pluralità dei linguaggi e da una tensione al mescolamento e all’ibridazione. Se una cosa è molto complessa è anche più lenta e meno efficace. È debole. Il Surrealismo, il Cubismo furono l’espressione di progetti per molti versi semplici quasi elementari. Se prendiamo un dipinto espressionista e lo confrontiamo con le ricerche più avanzate dell’arte contemporanea, risulta evidentemente un prodotto di un’estrema semplicità.

L’arte contemporanea ha perduto radicalità?

Direi di sì. Nel 1910, l’Europa fuori dalle città sapeva ancora di Ancien Régime, dialogava ancora con il Settecento. Nelle città era evidente il contrasto fra un mondo lanciato verso la modernità e la resistenza delle strutture ideologiche del passato. Fuori dall’Occidente era ancora un altro mondo. Cinquant’anni dopo, la società, non più europea, ma mondiale, si muoveva nel segno di una trasformazione più veloce di quanto mai prima accaduto, superando le resistenze di ogni modello culturale antagonista. Il primo risultato di tale accelerazione profonda è stato un macroscopico restringimento delle distanze. Più è grande la distanza, maggiore è il fascino esercitato dalle cose e dalle persone perché accelera un moto di scoperta dell’identità che è innato nell’uomo. Se la distanza è breve il fascino diminuisce. All’inizio del Novecento la messa a fuoco della distanza dava magnifici risultati, perché ci si trovava di fronte a mondi completamente diversi, forse i più distanti della storia dell’umanità. Oggi, in un mondo intensamente infeltrito, l’artista che patisce l’omologazione cerca strade originali, ma spesso cervellotiche. Le vie di fuga, per certi versi semplici, percorse da Picasso e da Brâncuși sono state chiuse per sempre.

Come nasce Francesco Paolo Campione?

Nasce e cresce attraverso il viaggio che, per tornare alla sua precedente domanda, mi ha permesso di scoprire la bellezza del mondo. Ho viaggiato in molti Paesi; mi ha sempre incuriosito la creatività più semplice di chi cucina, di chi cuce, di chi realizza dei piccoli panierini con le palme; fino alla creatività più complessa dei letterati e dei poeti. La ricerca della creatività è stata una passione che mi ha accompagnato fin da bambino. Quando studiavo all’università non trovavo alcuna disciplina che si occupasse della creatività; per cui mi sono indirizzato prima allo studio delle lettere, della filosofia, della filologia, poi verso l’antropologia culturale, attraverso la quale sono ritornato in qualche modo anche verso l’arte e la semiologia. Intorno ai trentacinque anni, mi sono reso conto che non vi era un’unica disciplina che mi permettesse di studiare la creatività. Dovevo piuttosto costruirmi un portfolio di competenze e conoscenze tutto mio. Il bello è stato, a un certo punto, capire che una parte delle competenze era giunta a maturità e che avevo finalmente gli strumenti per affrontare quei discorsi complessi, «liminari» come è oggi di moda chiamarli, che sfuggivano all’interesse dei consueti profili disciplinari.

Quali?

L’esotismo, il Primitivismo, la miniaturizzazione e la megalizzazione, la maschera e il mascheramento, la passione collezionistica (da cui nasce il museo), il rapporto fra arte e potere.

 

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Allestimento  a Villa Malpensata (Lugano) dell'esposizione "Je suis l'autre. Giacometti, Picasso e gli altri. Il Primitivismo nella scultura del Novecento", © 2019 FCM/MUSEC, Lugano.

 

La rivista si chiama Quid Magazine lei dove intravede il quid nella vita, nel lavoro? Qual è la scintilla che rende uniche le cose?

Come ho accennato prima, senza dubbio nella creatività. Se dovessi trovare un fil rouge dentro la mia esperienza direi che il quid è la creatività. Poi vi è la visione per dare forma alla creatività.

Torniamo al Museo delle Culture. Una nuova sede, una grande crescita, un’inaugurazione che premia anni di lavoro e, come lei stesso ha detto, finalmente una ferita che si rimargina. Ci può brevemente parlare di questo?

Alla base del MUSEC vi è stata una felice intuizione, quella di Serge Brignoni, e la forza di alcune persone che hanno permesso che il Museo nascesse. Passati i festeggiamenti per l’apertura, è stato però evidente che mancava un contesto che ne supportasse lo sviluppo e per quindici anni il Museo è stato pressoché abbandonato.

 

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Allestimento  a Villa Malpensata (Lugano) dell'esposizione "Je suis l'autre. Giacometti, Picasso e gli altri. Il Primitivismo nella scultura del Novecento", © 2019 FCM/MUSEC, Lugano.

 

Come mai questo?

Ogni museo - anche per i musei privati il destino è alla fine lo stesso - è il risultato di una comunità che si identifica con una memoria. Da ciò nasce un sostegno, non solo politico ma anche economico. I musei delle culture sono nati in quelle comunità che hanno posseduto delle colonie, che hanno viaggiato e commerciato con popoli lontani, che hanno conosciuto le culture da vicino, che hanno avuto ragioni storiche per collezionare le opere d’arte provenienti da paesi lontani. Il museo può nascere, ma non può reggere con un progetto esclusivamente intellettuale, appannaggio di pochi. Se no, alla fine, è destinato a scomparire. Il MUSEC è nato da progetto intellettuale e presentato poi a un pubblico locale che aveva un interesse estremamente limitato nei suoi confronti. Consapevoli di tale fondamentale fragilità, dal 2006 a oggi abbiamo innanzitutto lavorato per costruire e consolidare un consenso attorno al Museo, ampliandone l’area territoriale e la forza identitaria.

Ci siete riusciti?

Direi di sì, anche se resta molto da fare. Se da una parte il MUSEC ha fatto molta strada, facendosi conoscere e apprezzare coagulando una comunità sempre maggiore intorno a sé, dall’altra è cambiata la composizione sociale del territorio, mentre la politica ha cominciato a interpretare correttamente la cultura come forza produttiva. Anche grazie all’apertura del LAC molte cose sono cambiate, il giovamento è stato anche per noi che, nel frattempo abbiamo caparbiamente trasformato un piccolo museo in un apprezzato attore culturale a livello internazionale.

 

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Allestimento  a Villa Malpensata (Lugano) dell'esposizione "Je suis l'autre. Giacometti, Picasso e gli altri. Il Primitivismo nella scultura del Novecento", © 2019 FCM/MUSEC, Lugano. 

 

Lugano riesce ad essere una città competitiva da un punto di vista artistico e culturale?

Non del tutto ancora, perché vi sono due fragilità che andranno progressivamente sanate. La prima è un pubblico poco numeroso. Se si vogliono realizzare progetti di sviluppo occorrerà giocoforza ampliare il bacino di utenza e accrescere le rimesse che provengono dai visitatori. La seconda sono le competenze che servono per sviluppare moderne organizzazioni culturali. Il Ticino oggi ne ha poche. Occorre seriamente lavorare per far crescere i giovani nel territorio. Perché accada bisogna avere buoni maestri e strutture efficienti e predisposte a farlo. Qui la riflessione politica giocherà un ruolo importante.

Consigli che può dare a un giovane per ampliare la mente?

Viaggiare dappertutto, parlare con la gente, toccare con mano la realtà. Informarsi confrontando le notizie sui grandi quotidiani, in più lingue. Scrivere ogni tanto con la penna e non solo con il PC, specialmente le cose più importanti. Aborrire la superficialità.

Quali sono i principali appuntamenti futuri?

Quelli del MUSEC - dopo il progetto «Dayak», aperto al pubblico, a Villa Malpensata, sino a giugno - sono un’ampia rassegna di cinque secoli di pittura giapponese (luglio 2020-febbraio 2021) e una grande esposizione dedicata a Zhang Huan, uno dei maggiori artisti contemporanei cinesi (marzo-settembre 2021). I miei, dopo la pubblicazione del recentissimo Novecento primitivo dedicato alla scoperta delle altre arti fatta dai grandi artisti del Novecento (Electa), vertono tutti intorno all’approfondimento dei grandi temi della mia ricerca e alla stesura degli altri volumi che aspettano da anni fra le segrete cose.

 

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Sapuyung daré. Cappello cerimoniale utilizzato come scudo dell’anima durante le interazioni con le divinità e gli spiriti. 
Borneo meridionale. Etnia Ngaju. Seconda metà del XX sec. Collezione privata, © 2019 FCM/MUSEC, Lugano.