COLLEZIONISMO D’IMPRESA IN ITALIA di Dolores Mugherli 

 

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L’espressione “collezionismo d’impresa” rimanda a quel connubio potenzialmente virtuoso, risalente ai primi anni Settanta del secolo scorso, che ha contribuito a spezzare l’antinomia tra arte e impresa, tradizionalmente concepite, forse per tradizionale retaggio esperienziale, come due mondi ontologicamente distinti.

Il fenomeno, che ha visto la propria genesi negli Stati Uniti, si è esteso progressivamente, abbracciando aree geografiche e settori imprenditoriali sempre più ampi. Dal settore bancario e assicurativo – i primi a investire in opere d’arte – al settore tessile, della moda e del design e, non da ultimo, a quello alimentare.

La gamma dei beni oggetto di collezione a livello imprenditoriale include, a titolo esemplificativo, opere pittoriche e scultoree, opere fotografiche, installazioni e prodotti multimediali.

La decisione di investire in oggetti d’arte può poggiare su moventi diversi: una passione personale dell’imprenditore per l’arte, il desiderio di sviluppare e rafforzare il legame con il territorio di appartenenza ampliando e consolidando la propria influenza anche culturale, la finalità di promuovere la riscoperta o lo sviluppo di particolari forme d’arte o di figure artista per precise ragioni di predilezione estetica, spesso non scevre da altrettanto delineate convinzioni filosofiche e politiche.

A tali finalità si aggiunga, a titolo esemplificativo, l’esigenza di sviluppare la creatività nell’ambiente di lavoro avvalendosi dell’arte come principio e strumento organizzativo idoneo a nutrire di contenuto e di prospettive il pensiero, in altre parole, a generare cultura: l’arte può, infatti, costituire un utile strumento di lettura e comprensione delle dinamiche storiche, sociali ed economiche, che trascende i parametri sottesi al tradizionale metodo scientifico.

Alla base della decisione dell’impresa di investire in arte vi può essere, non da ultimo, l’opportunità di definire e valorizzare l’identità aziendale, utilizzando l’arte quale strumento per conferire maggiore visibilità all’impresa e quale veicolo di “elitizzazione” della propria immagine.

Quanto alla configurazione del fenomeno del collezionismo d’impresa in Italia, dai risultati di un’indagine a campione svolta nel 2016 dall’Università Cattolica, in collaborazione con Axa Art e Intesa Sanpaolo, è emersa una realtà composita, costituita, per più della metà, da collezioni facenti capo a imprese di piccole dimensioni, con meno di 50 dipendenti. Il significativo livello di diversificazione dell’ambito operativo delle società incluse nel campione di riferimento ha tuttavia risentito di una tendenziale polarizzazione in favore di entità operanti nel settore bancario e assicurativo. Le collezioni esaminate, con un valore medio di Euro 5 milioni circa, risultano nate, in prevalenza, da un interesse culturale dell’imprenditore di riferimento e composte, in maggioranza, da opere d’arte contemporanea.

Ciò posto, uno dei dati più significativi emersi da tale indagine è – con le opportune eccezioni – il tendenziale scarso livello di “integrazione” delle collezioni all’interno delle singole realtà aziendali, la tendenziale assenza di precise strategie di gestione e di valorizzazione idonee a “vivificare” la collezione, sfruttandone in modo integrale le relative potenzialità, in un dialogo dinamico e fecondo con l’impresa.

In particolare, il dato emerso dalla suindicata indagine suggerisce, con riferimento alla maggior parte delle imprese rientranti nel campione, l’adozione di una prassi gestionale caratterizzata dal coinvolgimento di figure part time, specializzate nel settore della comunicazione e del marketing e non, invece, dall’utilizzo di personale qualificato, stabilmente inserito nell’organizzazione aziendale. Inoltre, la maggioranza delle imprese italiane oggetto di indagine non procede, se non ogni 6-10 anni, alla stima del valore della propria collezione né adotta un sistema di valutazione finalizzato a misurare il “rendimento” della collezione in termini di influsso interno, sulle dinamiche aziendali, ed esterno, sull’immagine e sulla reputazione dell’impresa stessa. Meno della metà delle collezioni esaminate risulta munita di copertura assicurativa fine art.

All’opposto, è emerso un nucleo ristretto di imprese – quantificabile nel 30% circa del campione – che ha virtuosamente optato per una strategia gestionale decisamente più dinamica e interattiva, affidando la cura delle opere d’arte a figure munite di formazione umanistica o ibrida, dipendenti dalla direzione generale dell’impresa (e, in quanto tali, dotate di un’ampia conoscenza dei processi aziendali), promuovendo la formazione interna e organizzando eventi specificamente volti a conferire visibilità, anche esterna, al patrimonio artistico e all’impresa. Spicca, all’interno nel campione minoritario di riferimento, la collezione di Intesa Sanpaolo, un portafoglio diversificato composto da oltre 20.000 opere, efficacemente valorizzato attraverso molteplici iniziative, anche a livello espositivo, tra cui, segnatamente, Gallerie d’Italia.

Sulla scia dei dati rappresentati dall’Università Cattolica, il fattore “gestione” emerge, dunque, come uno dei profili più critici per una parte rilevante del collezionismo d’impresa italiano.

Tale risultanza suggerisce come indispensabile la promozione e la diffusione di forme strutturate di gestione in grado di valorizzare, in modo integrato e dinamico, il patrimonio artistico aziendale, sottraendolo a un’altrimenti inefficiente staticità. A tal fine, è certamente auspicabile un’intensificazione delle relazioni tra le imprese dedite al collezionismo d’arte, finalizzata alla condivisione di conoscenze ed esperienze utili per la promozione e la creazione di modelli gestionali strutturati. In tale contesto si inserisce l’International Association of Corporate Collections of Contemporary Art (nota con l’acronimo IACCCA), ente associativo privo di scopo di lucro, istituito nel 2007 e dedito alla prestazione di servizi per curatori di collezioni d’impresa. L’International Association of Corporate Collections of Contemporary Art annovera, attualmente, oltre 40 membri.

Come attestato dalla prassi, a livello societario, un ulteriore strumento potenzialmente idoneo a orientare la gestione del patrimonio artistico verso solidi parametri di efficienza, è rappresentato dalle fondazioni.

Le fondazioni sono enti dotati di personalità giuridica istituiti per l’attuazione di uno scopo possibile e lecito di utilità generale attraverso un patrimonio alle medesime conferito in dotazione dai fondatori. Costituibili, inter alia, con atto inter vivos in forma solenne, le fondazioni sono soggette a riconoscimento pubblico da parte dell’autorità preposta. Il riconoscimento della fondazione, determinato dall’iscrizione della stessa nell’apposito registro, determina, appunto, l’acquisizione della personalità giuridica, oltre che di un’autonomia patrimoniale perfetta. Per una trattazione più approfondita di tali profili, si rinvia a “Le fondazioni d’arte – Inquadramento normativo generale in merito all’attività di rilascio di certificati di autenticità di opere d’arte”, a cura della dott.ssa Valeria Piubello dello Studio Loconte & Partners, su questa rivista.

La fecondità del connubio arte-fondazione, in termini di valorizzazione del patrimonio gestito, dipende, in larga misura, dall’adozione, da parte della fondazione, di un efficiente modello di governo societario, fattore propulsivo dell’operatività dell’ente.

L’architettura della struttura di governo è delineata nello statuto della fondazione, il quale individua, tra gli altri, i relativi organi (e, segnatamente, l’organo amministrativo), disciplinandone la composizione e le regole di designazione e di funzionamento.

A seconda dello schema organizzativo prescelto, l’organo amministrativo – munito di poteri gestori e di rappresentanza funzionali alla realizzazione dello scopo istituzionale dell’ente – può essere composto da un solo amministratore o da una pluralità di membri. La carica di amministratore può essere assunta anche dal fondatore. L’operato dell’organo amministrativo è, a sua volta, soggetto a controllo da parte della competente autorità.

Ai fini di perseguire un’efficace gestione e un’attenta valorizzazione del patrimonio artistico, ove si opti per l’istituzione di una fondazione, particolare attenzione deve essere, dunque, prestata alla definizione del modello di gestione dell’ente.

La scelta in concreto del tipo di modello di adottare, del livello di articolazione della composizione dell’organo gestorio e di elaborazione delle norme statutarie di riferimento dipende, in modo significativo, dal grado di complessità del progetto sottostante.

Qualora si propenda per un consiglio composto da una pluralità di amministratori, può essere utile prevedere una diversificazione della composizione dell’organo, affiancando a consiglieri provenienti dall’ente fondatore che fungano da collegamento istituzionale con l’ente stesso, consiglieri muniti di comprovata esperienza e di competenze specifiche nel settore dell’arte. Può essere, inoltre, contemplato un sistema di deleghe di poteri funzionale a rendere la gestione più snella ed efficiente.

Un ulteriore strumento utilizzabile ai fini di un’efficace gestione del patrimonio artistico è il trust. Con il trust, l’impresa-collezionista (disponente) trasferisce la propria collezione a un affidatario (trustee) affinché quest’ultimo la gestisca per il perseguimento della specifica finalità delineata nell’atto istitutivo del trust. Trasferendo le opere d’arte al trustee, il disponente perde il possesso dei beni che divengono, a tutti gli effetti, proprietà (fiduciaria) del trustee. Con l’apporto in trust, si produce, in capo alla collezione, un effetto segregativo bidirezionale rispetto al patrimonio del trustee e dell’impresa-collezionista, con conseguente insensibilità della collezione stessa alle vicende che possano interessare le masse patrimoniali di tali soggetti.

Il trust è un istituto di origine anglosassone, riconosciuto nel nostro ordinamento con la ratifica della Convenzione dell'Aja dell’1 luglio 1985. Il legislatore italiano, pur avendo riconosciuto l’istituto in esame, non ha provveduto a tracciare la relativa disciplina. Nella configurazione concreta del negozio sottostante, particolare attenzione deve essere, pertanto, prestata, tra gli altri, alla scelta della legge applicabile, da identificarsi nella rosa degli ordinamenti esteri che disciplinano espressamente tale figura negoziale.

Un altro veicolo potenzialmente utile a valorizzare, sotto il profilo gestionale, le collezioni d’impresa è la società benefit. Tale “qualifica” – introdotta nel nostro ordinamento con la legge di stabilità 2016 (l. 28 dicembre 2015, n. 208) – designa le società che perseguono, oltre al tradizionale scopo lucrativo (i.e., la ripartizione degli utili), una o più finalità di beneficio o utilità sociale. La stessa può essere assunta, indifferentemente, da società di persone o di capitali (purché ne ricorrano i presupposti). Il perseguimento istituzionale di scopi di valore sociale deve essere espressamente contemplato nel relativo statuto e deve costituire, in concreto, oggetto di verifica periodica mediante le cosiddette relazioni annuali di impatto. Le società benefit devono dotarsi di una specifica struttura di governo societario, individuando i soggetti responsabili in relazione al perseguimento dell’obiettivo di utilità comune. Il vantaggio connesso all’utilizzo del modello di impresa espresso dalla società benefit non è di natura fiscale, ma giace, piuttosto, nella possibilità di fruire di un riconoscimento formale in termini di reputazione e trasparenza, mediante l’utilizzo della denominazione “Società Benefit”.

Sotto il profilo contrattuale, un ulteriore strumento a disposizione dell’impresa-collezionista per la preservazione del proprio patrimonio artistico è l’atto di destinazione richiamato dall’art. 2645 ter c.c.. Si tratta, nello specifico, di un atto negoziale, in forza del quale uno o più beni (i.e., beni immobili o mobili registrati) vengono destinati alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela – da individuarsi analiticamente nell’atto – riferibili a persone con disabilità, pubbliche amministrazioni, altri enti o persone fisiche. La durata dell’atto di destinazione può essere fissata per un periodo massimo di novant’anni ovvero, ove applicabile, per la durata della vita della persona fisica beneficiaria. L’impressione di un vincolo di destinazione sui beni nei termini di cui all’art. 2645-ter cod. civ. produce un effetto segregativo sugli stessi, che rimangono, per l’effetto, separati rispetto al patrimonio generale del conferente. L’art. 2645 ter c.c. prevede la facoltà di trascrivere i suindicati atti di destinazione presso il competente registro, con conseguente opponibilità a terzi della segregazione del bene oggetto di destinazione. Come si evince dalla norma, la possibilità di trascrivere un atto di destinazione nei termini ivi indicati è subordinata a talune condizioni, tra cui, appunto, la particolare natura del bene oggetto di destinazione - dovendosi trattarsi, rigorosamente, di beni immobili o di beni mobili registrati - e la funzionalizzazione dello stesso alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela. Il perseguimento di un interesse personale da parte del conferente non impedisce l’instaurazione di un vincolo di destinazione, purché, accanto allo stesso, sia perseguito un interesse di pubblica utilità. A titolo di esempio, è stato ritenuto trascrivibile ai sensi dell’art. 2645 ter cod. civ. l’atto di destinazione di un maniero ereditato dal conferente - e da questi adibito a propria abitazione - a esposizione permanente di opere d’arte fruibile da parte del pubblico. La declinazione della soluzione da adottarsi in concreto dipende, in ogni caso, da una serie di variabili fattuali, da apprezzarsi caso per caso, connesse, in larga misura, al profilo dell’impresa-collezionista, all’interesse dalla medesima perseguito e alle caratteristiche della collezione.

Qualunque sia l’opzione operativa prescelta, la diffusione di una nuova mentalità gestionale protesa a un impiego dinamico e fecondo dell’arte non può, in ogni caso, prescindere da una riscoperta attiva dell’intrinseca radicale totalità della vocazione dell’impresa, come espressione di un progetto più ampio, che travalica logiche e dinamiche apparenti per trasformare l’impresa in “uno stile di vita”, per produrre e dispensare, in modo autentico e non effimero, “libertà e bellezza, perché saranno loro, libertà e bellezza, a dirci come essere felici” (le parole citate sono parte dell’eredità di Adriano Olivetti).

 

Dolores Mugherli 

Avvocato, Senior Associate di Loconte&Partners