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"Una conversazione con l’artista Stephen Appleby-Barr in occasione della sua mostra personale presso la galleria Robilant+Voena".
By Angelica Moschin
Se è vero quanto diceva Gustav Mahler che “la tradizione è custodia del fuoco e non adorazione della cenere”, allora i dipinti di Stephen Appleby-Barr sono un potentissimo distillato di tradizione nel senso più alto del termine, perché da una parte onorano antichi maestri del calibro di Rembrandt, Goya e Velázquez ma dall’altro profumano di innovazione e audacia creativa. La sua arte scompagina lo status quo, prende il passato e lo fa deragliare, provoca il futuro ma, soprattutto, onora il presente, il nostro, sempre più complesso, stratificato, critico e ambiguo. Combinando oggetti della vita quotidiana con chincagliere squisite e immaginifiche che evocano mondi fiabeschi e sottilmente perturbanti, per Appleby-Barr arte è sinonimo di “storytelling” ed è tutta una questione di amore. Nato nel 1981 a Toronto, Stephen Appleby-Barr risiede attualmente a Londra. Il suo lavoro è stato esposto e collezionato in Canada, negli Stati Uniti e a Londra. Il giorno della nostra intervista mi incontra nel suo studio con una sigaretta in una mano e un tè matcha nell’altra. Ha la stessa agilità di pensiero e briosa impenetrabilità delle sue opere.
Max Kallio, 2021
Tu sei il primo artista emergente ad essere rappresentato dalla galleria Robilant+Voena con sedi a Londra, Milano, Parigi e New York. Potresti dirmi come è nata questa collaborazione, quando e cosa vi ha uniti in principio? C’è qualcosa nello specifico che ha fatto scattare questa fascinazione reciproca?
Ho incontrato per la prima volta Carolyn Miner, managing director della galleria, tramite amici di amici che condividevano con me passioni e interessi e da lì abbiamo cominciato, in modo molto spontaneo, ad affrontare una serie di tematiche nel corso di discussioni di gruppo. Non mi considero un accademico; sono un uomo che è semplicemente e profondamente innamorato dell’idea di rappresentare il mondo e le persone intorno a sé. Leggendo e studiando nel corso degli anni mi sono accorto di come il concetto di “queerness” sia stato completamente rimosso dalla storia dell’arte e come alcuni studiosi si stiano oggi adoperando per colmare questa lacuna studiando la corrispondenza degli artisti del passato. Ciò che hanno scoperto è che, naturalmente, tutto è sempre stato molto queer! Io mi limito a prendere il contesto che mi circonda e trattarlo con un approccio “classico”. Per cui quando Robilant+Voena ha organizzato una mostra che ripercorreva e tematizzava alcune delle principali modalità di rappresentazione della mascolinità da Van Dyck a Francis Bacon fino ai giorni nostri ed è stato incluso il ritratto di uno dei miei amici non-binary, il gioco era fatto! Per me si è come aperto un ventaglio di interpretazioni e letture concettualmente rigeneranti. Dopodiché c’è anche da dire che la pandemia ha facilitato questa collaborazione perché la galleria nel 2020 programmava show virtuali con una certa regolarità e pertanto è stato facile includere il mio lavoro senza che questo dovesse essere fisicamente presente…
Raccontami qualcosa dei lavori attualmente esposti presso la galleria…cosa li ha ispirati? Mi ha molto colpito che in un’intervista tu li abbia definiti come “gesti di gratitudine nei confronti dei tuoi amici più intimi”, amici con cui, nei lunghi mesi del lockdown, hai peraltro intrattenuto una serie di corrispondenze epistolari. Perciò mi stavo chiedendo se e in che misura questo corpus di lavori sia stato influenzato da questa interruzione surreale in cui ci siamo trovati immersi ad un certo punto. Credo che uno stile lenticolare e così orientato al dettaglio come il tuo non possa che beneficiare di una certa cristallizzazione temporale. Sei d’accordo?
Assolutamente sì! Costretti ad arrestare la nostra corsa quotidiana in modo così improvviso e brutale, ci siamo trovati davanti ad una scelta cruciale: da una parte potevi impazzire su TikTok e dall’altra invece potevi prendere in mano carta e penna e scrivere una vera lettera come una volta riscoprendo così il valore e la bellezza della lentezza. Il ritmo su cui abbiamo dovuto impostare la nostra vita ha comportato un cambio di mentalità della cui radicalità forse non ci siamo mai resi conto fino in fondo. Alcune persone si sono scoperte incapaci di fermarsi, altre hanno approfittato dell’interruzione in modo saggio e consapevole, tante questioni sono state portate in superficie. Mi sono chiesto: “Cos’è questa pausa e cosa sta facendo a me personalmente come essere umano?” Quindi la risposta è sì, Il mio lavoro è in rapporto con quel clima “da lockdown”, foss’anche in virtù del tempo che richiede. Ho amici che possono terminare un lavoro in un giorno mentre io impiego settimane e mesi! Ho provato a forzare il mio ritmo ma semplicemente non funziona. Trovo che prendermi del tempo, il mio tempo, reclamarlo sia un gesto sovversivo. Mi ribello contro l’aspettativa che forse avrei dovuto terminare quel dato lavoro ieri o l’altro ieri. “Je refuse”. Non forzo niente, lascio che le cose siano. Questa è, in fondo, anche l’essenza dell’amore: l’abbandono. Se osservo cose realizzate velocemente, ne traggo un’impressione di velocità e approssimazione mentre quando guardo un dipinto che ha il Tempo letteralmente incastonato dentro di sé, ne rimango incantato. Coltivare la lentezza è una pratica scomoda perché la società odierna non ci incoraggia ad andare in quella direzione. Bisogna essere onesti con se stessi sin da subito.
Johiem Ismail, Correspondent, 2020.
Vi è un chiaro legame fra tradizione e innovazione nel tuo lavoro. Proprio per questo mi pare che il rischio di sovrainterpretare la tua arte mettendola forzatamente in relazione con gli Antichi Maestri, vuoi per l’impiego della pittura ad olio che per i temi scelti, sia alto. Come possiamo dunque leggerla senza dover ricorrere alle solite categorie ermeneutiche della storia dell’arte?
Pensala come una fiction storica che non ha luogo né nel nostro passato né nel nostro presente, ma in un Altrove. Sinceramente non mi capita di riflettere spesso in senso critico sul mio lavoro mentre lo realizzo. Potrei sì fermarmi a pensarci e pormi una serie di domande ma è così fastidioso perché l’unica risposta che mi viene in mente è sempre e solo l’amore. Forse per alcuni non è molto soddisfacente come risposta ma poi mi domando: chi sto cercando di soddisfare? Non voglio educare nessuno né voglio sembrare cool. Sono semplicemente attratto da questi temi e da questi soggetti che mi stimolano a lavorare e niente è più sacro per me. Viviamo in un’epoca che ci domanda continuamente efficienza ma io non posso e non voglio essere efficiente. Quando sono alle prese con la palpebra di un amico, la curva delle sue labbra o il mondo in cui la luce passa attraverso la porcellana, non oso essere efficiente perché questo contravverrebbe allo scopo ultimo della mia arte, che è l’attenzione, ovvero il desiderio di conoscere i miei soggetti nel modo più puro e disinteressato possibile. Se guardo così spesso agli Antichi Maestri non è perché sono interessato ad una soluzione, ma perché voglio appropriarmi di una forma di devozione, la devozione del loro sguardo.