IDENTITÀ FISCALE DEL COLLEZIONISTA di Luigi A. M. Rossi 

 

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Il profilo più critico e dibattuto nell’ambito del rapporto tra diritto tributario e mondo dell’arte è rappresentato dalla difficoltà di inquadrare correttamente l’attività del collezionista al fine di distinguerla da quella del mercante d’arte o dello speculatore.

Difatti, a fronte di una plusvalenza generata da una transazione potrebbe applicarsi un prelievo tributario, in quanto la maggiore ricchezza generata può essere indice di una capacità contributiva alla quale, stando al dettato della Carta Costituzionale, corrisponde l’obbligo del cittadino di concorrere al sostenimento della spesa pubblica.

Le precedenti leggi d’imposta (come ad esempio l’articolo 76, D.P.R. n. 597/1973) prevedevano espressamente la tassabilità delle plusvalenze conseguite mediante la vendita a fini speculativi (precisando che l’intento speculativo si desumeva automaticamente – e senza possibilità di poter fornire prova contraria – in tutte quelle ipotesi in cui l’acquisto e la successiva rivendita di oggetti d’arte avvenissero in un periodo di tempo inferiore a due anni), mentre ad oggi, non essendo tale norma stata riproposta in sede di adozione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi - Tuir), i guadagni derivanti dalla compravendita di opere d’arte (al pari di altri oggetti di antiquariato o da collezione) non generano, nell’attuale impianto normativo, un’automatica fattispecie imponibile essendo, in linea di generale, del tutto esenti da imposizione.

Tuttavia, un contesto in cui la normativa non disegna in maniera specifica il perimetro operativo, data la mancanza di previsioni espresse, lascia all’Amministrazione finanziaria la possibilità di verificare se, ed a quali condizioni, i proventi determinati da una cessione possano essere indice di una capacità del soggetto a contribuire alla spesa pubblica e quindi oggetto di imposizione sulla base dell’impianto generale previsto da altre norme del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir).

Le categorie all’interno delle quali ci si può ritrovare, collezionista puro – speculatore occasionale – mercante abituale, sono quindi il frutto dell’approccio con cui un soggetto effettua l’investimento e sulla base di tale approccio, al collezionista può essere riconosciuta, dall’Amministrazione finanziaria, la diversa natura del mercante d’arte, ovvero di chi abitualmente svolge una attività finalizzata allo scambio di opere, i cui proventi possono essere attratti nell’ambito della tassazione prevista per le persone fisiche che svolgono attività di impresa.

Il legislatore fiscale, all’art. 55, comma 1, Tuir, definisce redditi di impresa quelli che derivano dall’esercizio “per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività elencate nell’art. 2195 c.c. (…) anche se non organizzate in forma di impresa”.

Posto che l’art. 2195 del Codice civile individua tra le attività commerciali la “attività intermediaria nella circolazione dei beni”, all’interno della quale può essere ricompresa anche l’attività di acquisto e rivendita di beni, non può escludersi a priori il rischio che al collezionista che ponga in essere attività di acquisto e rivendita di opere d’arte, pur animato da sole finalità estetiche e culturali, possa essere contestato l’esercizio di attività commerciale, ove la stessa avvenga fuori dal perimetro della attività strumentale alla creazione della propria collezione.

In tal caso, il rischio è che il collezionista possa essere identificato come mercante d’arte, ancorché l’attività non sia stata svolta in maniera esclusiva ed organizzata in forma di impresa. La Corte di Cassazione, ha più volte ribadito che il Legislatore tributario prescinde del tutto dal requisito organizzativo, che, per contro, costituisce un elemento che qualifica e contraddistingue l’impresa commerciale agli effetti civilistici, richiedendo, affinché la fattispecie assuma una rilevanza fiscale, che l’attività sia contraddistinta da “professionalità abituale”, ancorché non esclusiva.

La Suprema Corte ha specificato che la caratteristica essenziale dell’attività commerciale “abituale”, intesa come attività commerciale “non occasionale”, è rappresentata da una “pluralità di atti coordinati diretti alla realizzazione del medesimo scopo” ovvero una “serie di atti intermedi volti ad incrementare il valore del bene in funzione della successiva vendita”.

Per cui, se il collezionista, nell’ambito delle attività di gestione della propria collezione, effettui numerose e frequenti transazioni, una o più operazioni di particolare complessità e rilevanza economica, ovvero compia numerose attività finalizzate a valorizzare l’opera, rischierà che i proventi derivanti dalla cessione potranno essere riqualificati dall’Amministrazione finanziaria come rientranti nella generale categoria dei redditi di impresa (conseguiti come mercante d’arte).

Per l’effetto, tali proventi concorreranno alla formazione del reddito complessivo e tassati secondo le aliquote marginali progressive previste sulla base dello scaglione di appartenenza, che, nella ipotesi più gravosa, possono arrivare al 43% a titolo di Imposta sui Redditi delle Persone Fisiche (IRPEF) oltre addizionali regionali e comunali per un ulteriore 2% circa.

Inoltre, il mercante è altresì un soggetto passivo ai fini dell’Imposta sul Valore Aggiunto (IVA), ai sensi dell’art. 4, D.P.R. del 26 ottobre 1972, n. 633, che fornisce una definizione di attività di impresa simile a quella prevista dall’art. 55, Tuir, circostanza che comporta l’obbligo del venditore di addebitare l’IVA in fattura al momento della cessione del bene ed il conseguente versamento all’Erario una volta incassata dall’acquirente.

Più improbabile è che la riqualificazione della attività di collezionista come mercate d’arte, comporti anche l’applicazione dell’Imposta Regionale sulle Attività Produttive (IRAP), a condizione che questi operi senza una autonoma organizzazione.

Pur in mancanza del descritto requisito dell’abitualità, si dovrà comunque verificare che i proventi derivanti dalla cessione delle opere non siano stati conseguiti con un intento speculativo, che possa far rientrare il collezionista/contribuente nella generale categoria dello “speculatore occasionale”, i cui proventi vengono tassati ai sensi dell’art. 67, lettera i), Tuir, a norma del quale i redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente rientrano nella categoria dei redditi diversi (e non nei redditi di impresa).

L’assenza di abitualità, infatti, non è un elemento che esclude a priori ogni presupposto impositivo, in quanto lo speculatore occasionale, essendo comunque animato da un intento lucrativo che si concretizza nel cercare il massimo profitto da anche una singola cessione (ponendo in essere, ad esempio, diverse attività di valorizzazione dell’opera preordinate alla rivendita), subirà la tassazione in misura analoga a quella del mercante, risultando come un soggetto passivo ai fini IRPEF.

Diversamente dal mercante, però, mancando il requisito dell’abitualità, non sarà un soggetto passivo ai fini IVA.

Occorre quindi che il collezionista presti particolare attenzione a tutte quelle attività e transazioni che, anche se eseguite al solo scopo di migliorare la qualità ed aumentare il valore della collezione, possano essere riqualificate come attività commerciale (abituale o occasionale) e, per l’effetto, essere contestate attraverso l’attività accertativa dell’Agenzia delle Entrate, la quale dovrà comunque dimostrare che le motivazioni che hanno spinto un collezionista a porre in essere determinate transazioni fossero di mero profitto piuttosto che di soddisfacimento di bisogni estetici e culturali di natura personale.

Alcuni elementi come la frequenza delle transazioni, la vendita di un’opera effettuata a breve distanza dal suo acquisto, possono essere indice di uno scopo e di una intenzione che va in direzione opposta a quella del collezionista (che tende a possedere le opere, quantomeno per un certo periodo di tempo). Altro esempio: il sostentamento del collezionista derivante dai soli guadagni generati dalla compravendita sistematica di opere d’arte (circostanza che l’amministrazione può facilmente riscontrare da una analisi degli estratti di conto corrente bancario) è un chiaro sintomo di una abituale attività di compravendita, che denota quindi lo svolgimento di un’attività commerciale.

Infine, va segnalato che una zona franca, libera da qualsivoglia sindacato dell’Amministrazione finanziaria è riconosciuta alle opere ricevute, come spesso capita, per donazione o in eredità, in quanto è la stessa Agenzia delle Entrate a ritenere che in questi casi l’acquisizione dell’opera, non essendo preordinata alla rivendita, non è indice di un intento commerciale o speculativo (salvo quei casi in cui l’Agenzia riesca a dimostrare che la donazione era preordinata alla rivendita, e quindi posta in essere con intenti elusivi).

 

Luigi A. M. Rossi

Avvocato, Dottore Commercialista, specializzato in Diritto e contenzioso tributario, Wealth Management, Diritto e fiscalità dell’Arte.

Associate di Loconte&Partners – sede di Milano.