L'analisi e la valorizzazione delle Collezioni legata alla vita d’impresa

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"L’arte in impresa garantisce un’opportunità di relazione, un’idea di equilibrio, di bellezza e di profondità maggiore". Intervista alla Professoressa Chiara Paolino docente all'Università Cattolica di Milano. 

By Camilla Delpero   

 

Come nasce Chiara Paolino?

Ho sempre avuto una passione per l’arte fin dall’adolescenza. Allo stesso tempo, sono sempre stata una persona con un grande senso pratico, pertanto sapevo che la sola parte teorica dello studio artistico non faceva per me. Ho deciso di studiare all’Università Bocconi con un progetto pilota in “Economia per l’arte la cultura e la comunicazione”; era un corso con 100 studenti, un numero esiguo per una facoltà di Economia. È stato un bel momento, che ha cambiato tante cose nella mia vita. Avevo dei docenti molto giovani, con passioni intense e a 360° gradi, che spaziavano dal mondo delle arti visive, fino all’editoria, volta soprattutto ad organizzare la produzione culturale. Successivamente, ho completato un dottorato di ricerca in Management e Business Administration trovandomi - durante la stesura della mia tesi - a studiare la gestione del personale nei musei pubblici. All’Università Cattolica, dove insegno adesso, esistevano già, con una tradizione già consolidata, dei programmi di gestione e amministrazione dei beni culturali. Mi è stata data un’occasione importante: fondarne una versione internazionale. Ho lavorato con i colleghi di Economia e di Storia dell’arte per la creazione di programmi internazionali di management dell’arte. In questa posizione mi ritrovo tutt’ora e, per quanto riguarda interessi di ricerca, mi trovo ad applicare teorie economiche e manageriali nel campo di settori creativi e culturali.

Lei si occupa in quanto docente universitaria di corporate collection, ce ne vuole brevemente parlare?

Io mi occupo di gestione del personale e di inclusione primariamente e, partendo da questo argomento, ho studiato alcuni progetti relativi alla presenza dell’artista nell’impresa. Da ciò, successivamente è nato il mio interesse per lo studio e la gestione dell’oggetto artistico nell’azienda; perché l’arte in impresa garantisce un’opportunità di relazione diversa con il personale: un’idea di relazione, di equilibrio, di bellezza e di profondità maggiore. Da qui è nata l’idea di studiare il fenomeno in Italia e farne una mappatura. Il mio interesse è capire come l’arte si colleghi con la vita lavorativa delle persone.  Lo trovo un ambito interessante; dal momento che stiamo sul posto di lavoro molto tempo, capire come un’opera possa cambiare o influenzare la vita lavorativa e l’operatività degli impiegati è un coinvolgente oggetto di ricerca, specialmente in questo periodo dove le persone non possono più frequentare il luogo di lavoro. La corporate collection è una cosa che si dovrebbe provare dal vivo. Questo, però, è vero solo in parte. A livello psicologico, lavorare per un’azienda che ha dato prova di investire in progetti culturali, significa sentire l'appartenenza ad una realtà che va oltre l'aspetto economico; significa che ha un’identità sociale e culturale forte. Questo sentimento rimane inscindibile anche quando si è lontani. L’arte crea un legame indissolubile che va oltre il tempo e il luogo fisico; diventa un ricordo che diventa un modo emotivo di vivere il lavoro.

Come si lega la valorizzazione delle collezioni alla vita dell’impresa?

Ci sono molto punti di vista. Diventa una possibilità nelle mani di chi si occupa di gestione del personale; può diventare una chiave per organizzare la formazione; organizzare i momenti di comunicazione interna; può essere una leva del marketing; ma diventa anche una leva di responsabilità sociale di impresa. Dal momento che si tratta di investimenti ingenti, riguardo a questi si può trovare il modo per coinvolgere numerosi portatori di interesse: investitori, azionisti; quelli che oggi, in senso lato, usiamo chiamare stakeholders. È stato pubblicato uno studio interessante su degli istituti bancari tedeschi. Viene documentato come le aziende che comunicano nei bilanci societari il possesso di collezioni corporate, inducano negli investitori una percezione di maggiore presenza della governance. Gli investitori hanno l’impressione che chi fa investimenti importanti in cultura abbia un board dirigenziale più orientato ad una maggiore trasparenza e qualità nella gestione degli affari; ma l’arte aiuta a costruire quest’idea di trasparenza. È una questione strategica, ma soprattutto sociale e culturale.

La Barilla può essere considerata un esempio di un perfetto corporate collection?

Per un motivo di deontologia professionale di ricercatore non faccio mai la lista dei “buoni e dei cattivi” preferisco astenermi dal giudizio sulla singola corporate collection; le posso però dire dalle analisi che ho fatto che ho un modello di corporate collection ben gestita ed è quella che si trasforma in una produzione culturale. L’impresa che possiede pezzi d’arte al suo interno, li espone, supporta gli artisti nel loro lavoro, non solo acquistando l’opera, ma anche fornendo un programma con cui l’artista viene seguito nella sua carriera, con progetti mirati e a lungo termine. Ciò significa, come azienda, allacciare rapporti importanti con le istituzioni museali, fieristiche, biennali ecc. La perfetta corporate collection è quella che viene valorizzata, che esce dall’impresa perché quest’ultima è in grado di organizzare una produzione artistica valida, di consolidarla attraverso la residenza d’artista, la pubblicazione di volumi, ecc. L’impresa non ha solo più un compito economico, ma diventa un’entità sociale, culturale, che deve produrre dei valori e per farlo deve uscire dai propri confini. Non deve proporre il proprio patrimonio artistico solo ai suoi dipendenti, quindi accontentarsi di esporla esclusivamente per loro, ma deve offrire questa possibilità anche alla sua città e altrove. Non uso il termine “mecenatismo” in quanto mi viene in mente l’idea di artista servile e di imprenditore come paternalista. L’azienda dovrebbe avere un’identità che va al di sopra di quella dell'imprenditore, o comunque della proprietà. Va oltre la famiglia e i soldi. L'azienda decide di avere un programma con cui segue una linea poetica coerente, che si traduce in un progetto artistico che poi viene commissionato a un artista, il quale si attiene al programma, senza mai essere vittima dell’umore di quel giorno.  In sintesi: va oltre i singoli egoismi. Inoltre, non credo che l’operatività dell’azienda vada a sostituirsi alle istituzioni artistiche, perché l’impresa che produce e finanzia l’artista va poi ad agganciarsi alle medesime istituzioni per far crescere il proprio progetto culturale. Vedo l’impresa come attore che produce cultura attraverso la corporate collection e la sua buona gestione. Gli esempi più virtuosi sono quelli che collaborano con le istituzioni artistiche per un ottimo risultato.

Un’impresa a chi si può affidare per iniziare una propria collezione? Solo passione o strategia?

Normalmente, molte collezioni vengono create per la passione dell’imprenditore, altre sono nate per una “questione storica” dell’impresa; gli istituti bancari ad esempio hanno collezioni perché le acquisiscono in relazione ad operazioni di fusione ecc. Oggi, l’impresa si lega all’arte perché crede che la sua identità non sia solo economica, ma anche sociale e culturale, quindi si può dotare di una collezione. In primis si deve indirizzare a uno storico dell’arte per raccoglierla e studiarla, dopo di che allo storico deve affiancarsi una figura manageriale che la gestisca.

Ci può parlare dei progetti che segue?

Non seguo singoli progetti, ma cerco per mio interesse come ricercatore - accademico e consulente di inserirli sempre in qualcosa di più ampio respiro. I progetti di cui mi sto occupando maggiormente sono due: un progetto europeo a cui partecipo con altre otto università, per indagare il ruolo dell’artista nella formazione degli adulti. Ci occupiamo o di adulti inseriti nel contesto lavorativo d’impresa o studenti di materie manageriali; ciò per me è molto interessante. È un progetto che ha trovato un sostegno economico, il che vuol dire che l’Unione Europea crede nel ruolo dell’arte nella formazione degli adulti e non solo in quella dei bambini. Come gruppo di lavoro ci occupiamo della parte italiana e abbiamo analizzato come gli artisti sul luogo di lavoro possano influire sull’interiorizzazione di concetti come l’inclusione della diversità. Abbiamo lavorato con dei workshop assieme a manager e artisti per capire come, attraverso la pratica artistica, si riescano ad interiorizzare nella pratica lavorativa quotidiana il rispetto dell’altro ecc. Il secondo progetto che mi appassiona è quello di capire come le imprese contabilizzino il loro patrimonio artistico. Sto scoprendo che a seconda delle scelte fatte dall’azienda, essa possa decidere che l’arte sia un bene strumentale oppure puntare sul valore culturale dei quest’ultima. L’argomento di iscrizione al bilancio apre diverse porte di interesse.

Cos’è la bellezza secondo lei?

Mi sono venute in mente alcune cose: la completezza e la delicatezza. È bello ciò che è ben fatto e ciò che può comunicarti qualcosa di forte senza ferirti; per me ciò si lega all’arte che mi piace, bella perché stimolante di un pensiero con delle forme armoniose, equilibrate, possibilmente collettive.

Cos’è l’arte contemporanea secondo Chiara?

Non posso dare una definizione tecnica. Potrei solo dare la mia visione sull’arte: ossia essa è il modo di esprimere problemi attuali con mezzi attuali, realizzata da persone che sono in grado di sentire, percepire e comunicare in un modo universale.

La rivista si chiama Quid Magazine, perché vuole indagare il quid, quella scintilla che rende unica una cosa. Lei dove la intravede nel suo lavoro o nella sua vita?

Nel mio lavoro il quid è la possibilità di parlare con persone che si occupano di arte, artisti, curatori, giornalisti senza essere un loro pari, ma una persona esterna. Sia io che loro siamo liberi di parlarci e di capirci senza essere giudicati, questo è un grande valore aggiunto. Le persone all’interno della stessa comunità spesso si sentono criticate, per me il quid è potersi parlare da prospettive diverse con la sospensione del giudizio, quindi raccontarsi la stessa storia da più punti di vista differenti.